Ricordi verdi e… paesaggi sconvolti

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di Eno Santecchia

  trebbiatrice

Negli anni ‘60 – ‘70 il paesaggio agrario delle colline maceratesi è stato, in gran parte, sconvolto per fare spazio alle lavorazioni meccaniche. Nel secondo dopoguerra del ‘900 la campagna del medio e alto Maceratese era composta di seminativi, alberate umbro marchigiane di viti e aceri, piante da frutto, fratte e fossi. L’acero campestre, albero robusto e resistente alle potature annuali, faceva da tutore alla vite, ecco perché si diceva maritata all’acero. L’acero consentiva alla vite un buon sostegno a una congrua altezza da terra, per contrastare gli attacchi fungini favoriti dall’umidità. In Turchia, Marocco e Tunisia, ho visto la vite coltivata molto bassa, quasi senza sostegni, anche per il clima molto asciutto. Le piante da frutta più diffuse erano: mele rose, prugne, ciliegie, albicocche, pere, noci, fichi, visciole e qualche mandorlo. Ricordo gelsi, olmi e rari alberi di mela cotogna, melograno, giuggiolo e sorbo. Le fratte (siepi selvatiche interpoderali) e le strade vicinali di terra battuta, in genere, dividevano i campi e le proprietà, i fossi consentivano il corretto scolo a valle delle acque, verso i torrenti e i fiumi. Vicino a pozzi o sorgenti ricordo anche qualche pantano o laghetto di campagna: modeste riserve d’acqua, dove si dissetavano uccelli e mammiferi selvatici. Le macchie boschive, dove in autunno ci si recava a trovare le castagne, si trovavano nella parte più alta e pedemontana (Camerino e Pian di Pieca). La mela rosa era più piccola delle mela gialla di oggi (es. Golden delicious), ma era saporita e si preservava senza frigoriferi. Le mele, una volta raccolte, venivano conservate all’incrocio dei rami principali di acero, all’interno di un contenitore ecologico fatto di gambi di granoturco e paglia, dove si mantenevano per tutto l’inverno. Le piante di prugne (o susine) spontanee erano molto diffuse, ottimi portainnesti per cultivar più pregiate. Gli alberelli di pesca, perlopiù dal frutto spiccagnolo, soggetti alla ticchiolatura e ad altre malattie, nelle nostre zone vivevano pochi anni. A febbraio, dopo qualche giorno di sole, fiorivano i mandorli. Verso la fine di aprile e primi di maggio, amavo mangiare i frutti verdi (mandorlini); non tutti gli anni, perché quell’albero risentiva moltissimo delle gelate e dei ritorni di freddo, purtroppo quasi immancabili nel Maceratese. La vite si difendeva dall’oidio con trattamenti a base di polvere di zolfo e dalla peronospora con la “poltiglia bordolese”, detta dagli agricoltori “acqua ramata”. Per eseguire l’aratura, l’erpicatura con i trattori, la raccolta dei cereali con le mietitrebbie e la pressatura del foraggio con le imballatrici, bisognava fare spazio. Mentre prima si usavano grossi segoni a mano tirati da due uomini, con il boom economico le querce provarono sulla loro corteccia la tremenda efficienza delle motoseghe. In poche ore, mercenari riducevano a pezzi maestose roverelle, regine dei campi; la natura aveva impiegato secoli a forgiarle, esse avevano resistito a fulmini, temporali, formiche e cerambici, sfamando con le ghiande generazioni e generazioni di maiali e quindi di umani. Prima dell’entrata in vigore della legge regionale in difesa delle querce (1973) moltissimi esemplari secolari di quella specie vennero venduti e abbattuti, come le alberate e alberi da frutto. Ricordo bene anche il rovescio della medaglia. Con le piogge abbondanti i terreni argillosi s’inzuppavano, appesantivano e franavano, in altre parole erano soggetti agli eventi meteorologici assai più di prima. Il denaro ricavato dalla vendita del legname di lì a poco fu necessario, quasi ogni anno, per la sistemazione superficiale di quei terreni, a seguito di numerose, continue frane e smottamenti. Non s’investiva denaro per sistemazioni di lunga durata, come le vespaiature o altre opere idrauliche. Le poche piccole querce rimaste non riuscirono a fermare le grandi masse di terreno argilloso che si spostavano a valle, e si seccarono. Erano considerati inutili e davano inciampo pure fratte, fossi e pantani, necessari alla sopravvivenza di quella che oggi chiamiamo biodiversità. Tutto fu spianato con le macchine movimento terra, all’epoca chiamate sbrigativamente ruspe. Con il benessere economico e l’arrivo di frigoriferi e cucine prima, e lavatrici poi, e il successivo consumismo, qualcuno prese la deprecabile abitudine di gettare vecchi elettrodomestici e ferraccio nei ruscelli o sotto i ponti dei torrenti. La scusa era: “Chi lo raccoglie lo paga troppo poco, meglio buttarlo”. Dopo l’avvento dei trattori e il seguente esodo dei contadini dalle campagne, le alberate scomparvero per cedere il posto a nuove coltivazioni arboree ed erbacee specializzate quali: vigneti, grano duro, barbabietola da zucchero, girasole, mais da foraggio e sorgo. Oggi purtroppo anche quelle coltivazioni, in parte, sono andate in crisi anch’esse per motivi vari.

 

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