Quel viaggio da Trieste alla Sicilia

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A cura di Fulvia Foti

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Tappa per il pranzo, si scese in una locanda sudicia e dall’aspetto poco confortevole: il nostro gruppo torse il muso e andammo in cerca di un ristorante. Ne trovammo uno buono, prendemmo un bel brodo con l’uovo, arrosto, cavoli e vino… però 600 lire. Si riprese il viaggio con il proposito di non fermarsi più per guadagnare tempo; e qui fu veramente doloroso: mi dolevano tutte le ossa, un nuovo doloroso foruncolo era apparso all’orizzonte di faccia a quello che stava tramontando… Il buio si era fatto profondo, tutti eravamo in preda a tristezza e stanchezza. Qualche pisolino con la testa ciondoloni sul petto che, alle volte, sbatteva sui ginocchi. Tutti eravamo bianchi di polvere, i capelli attaccaticci, non si capiva più quali fossero le nostre coperte, nel buio chi tirava qua, chi tirava là. Quando scendeva qualcuno bisognava controllare da soli le valigie e aiutare a scaricare; l’autista se ne fregava! Gli raccomandai di farmi scendere a Foggia, davanti all’agenzia, come ero rimasta d’accordo a Trieste con il padrone. Ebbene, lo crederesti? Verso le 3 di notte la macchina si ferma in aperta campagna e l’autista scende per dirmi che sono giunta a Foggia… io protesto perché non vedo né lumi né case; alcuni viaggiatori che volevano giungere in tempo a Bari per prendere il treno, egoisticamente protestano che il camion non è servizio a domicilio, ma il padre di Savino (vedi che facendo il bene si ottiene bene?!), riconoscente, protesta che non si può far scendere una signora con una bambina, sole, nel cuor della notte, in aperta campagna a 3 e più chilometri dalla città, con ingente bagaglio e con il pericolo di venir derubate, e che mi portassero o alla stazione o a un albergo. Le correnti si dividono in due: a me verrebbe voglia di piangere perché ho paura dei briganti e perché mi vedo alla mercè di una autista che non fa il suo dovere, perché ho pagato fino a Foggia centro. Brutta impresa! Il padre di Savino insiste e si mette al volante per guidare il carrozzone fino a Foggia. Finalmente ci fermiamo e io e Fulvia si scende con le valigie e borse e coperte: un battibecco con un signore perché la mia coperta (quella che doveva fare il cappotto) bella e nuova egli dice essere sua. Siamo al chiarore di una lampadina tascabile, inutile insistere, mi debbo tenere quella che mi da che è più piccola. Per fare scendere il cassone bisogna scomodare tutti i viaggiatori e togliere i sedili: nuovi mormorii e proteste! Dopo i saluti e gli auguri il “furgone” parte con i superstiti e io e Fulvia restiamo al buio, sole a “rimirar le stelle”. Ci si avvicinano 3 figuri chiedendoci cosa avessimo nel cassone e io pronta: Roba per la caserma dei C.C.R.R (ndr: carabinieri)! Per fortuna passa una carrozzella e la fermo. Carico tutto e mi faccio portare alla caserma. Busso, il piantone viene ad aprire insonnolito, chiedo di Lino. Il cuore mi batteva per l’ansia che non ci fosse. Invece il piantone mi dice che mi aveva atteso fino alle due e che poi era andato a riposare vestito, perché pensava che sarei arrivata il giorno dopo. Lo va a chiamare e mentre vuole farmi accomodare in ufficio, da una porta laterale, in un corridoio semioscuro, vedo venirmi incontro un uomo a braccia spalancate, in maniche di camicia, che prima ch’io me ne rendessi conto mi stringe fra le braccia e mi bacia con le lacrime agli occhi. A me sembra di avere tra le braccia un ragazzino quindicenne, tanto mi pare mingherlino e smilzo; poi Lino abbraccia Fulvia, che era rimasta muta e ha avuto il tempo per osservarlo e convincersi che era il suo papà.

15/1/1946

Continuo dopo tanti giorni di sosta, oggi è già un mese che sono partita! Come passa il tempo… Riprendo il racconto da dove l’ho interrotto ma continuerò più in succinto, altrimenti chissà quanti fogli riempirò. Dunque, dopo le prime effusioni di affetto, Lino ci portò a dormire da una signora: Io e Fulvia riposammo fino alle due del pomeriggio. Poi pranzammo e alla sera una breve cena e nuovamente a letto. Il giorno dopo rimasi ancora a Foggia senza uscire da casa e il martedì mattina partimmo in macchina. C’era un mucchio di bagagli di Lino, pesanti, che occupavano gran posto, sicché dovetti tenermi Fulvia sulle ginocchia. Da Foggia ad Avellino, dove pranzammo; poi diretti a Battipaglia dove pernottammo in una caserma dei Carabinieri, perché ci sconsigliarono a proseguire con il buio; io e Fulvia dormimmo vestite in una camerata, al mattino presto ci rimettemmo in macchina e via! Lasciammo le Puglie, la Lucania ed entrammo nella Calabria. Benedetto Gustavo, glielo voglio proprio dire quando lo rivedrò: che viaggio eterno attraverso le interminabili montagne della Calabria. Si viaggiava con un po’ di ansia e batticuore in quelle zone solitarie, fra vette candide di neve, molto spesso scoppiavano le gomme causa il troppo peso e bisognava fermarsi in qualche centro per ripararle. passammo la notte a Paola, dove cenammo e dormimmo. Alla mattina, dopo il rifornimento di benzina, riprendemmo il viaggio.

continua

 

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