Quel viaggio da Trieste alla Sicilia

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Una lettera del 1945 (quarta parte)

a cura di Fulvia Foti

 p 20 lettera-aperta

L’autista era molto bravo e instancabile! Viaggiammo tutto il giorno lungo le coste del Tirreno. Passammo Sapri e altri luoghi incantevoli, dove il mare aveva un colore celeste pastello mai visto in vita mia. Ho fatto centinaia di chilometri tra campi e boschi di ulivi ancora col frutto! Meraviglioso! Non posso descrivere quale commozione provai quando vidi le prime piante di aranci, mandarini e limoni carichi di frutta. Io e Fulvia rimanemmo a bocca aperta, estasiate! Avevamo lasciato a Trieste alberi brulli, ischeletriti; qui trovavamo paesaggi ridenti, verdeggianti campagne, alberi fronzuti e ricchi di frutta. Viaggiammo tutto il giorno e verso sera giungemmo a Reggio. Cenammo in un locale e finalmente rividi il pane bianco (per l’ultima volta). In tutta Italia, e pure qui in Sicilia, si mangia pane scuro, fatto con lievito di casa; Fulvia non ne mangia mai, io pochino. Alla sera, alle otto e mezza, montammo sul ferry boat che, ai miei occhi atterriti, sembrò un qualche mostro diabolico, che inghiottiva nel suo ventre di acciaio auto, autotreni, vagoni ferroviari e gente e gente! Temevo di posarvi i piedi e quando si staccò dalla riva ebbi la sensazione esatta di staccarmi dalla Patria. Vidi la costa dell’Italia allontanarsi sempre più e il cuore mi si stringeva; volgendo lo sguardo dall’altra parte vedevo la Sicilia che mi attendeva con tutte le sue incognite! Con Fulvia salimmo sulla terrazza del ferry boat e ammirammo lo spettacolo, sole, in quell’immenso spazio di cielo e mare, sole con i nostri pensieri e le nostre sensazioni! Lino era rimasto a guardia dei numerosi bagagli, poiché la macchina era rimasta a Reggio per intraprendere il viaggio di ritorno a Foggia. Dopo mezz’ora o poco più altro urlo di sirena e il mostro si agganciò al porto di Messina. Prendemmo due carrozzelle che ci portarono a casa del cognato Nello. Erano già a letto, poverini, ma si alzarono tutti: Nello, Concettina, Gianna e Pinuccia, mentre la piccolina Marcella, bionda e ricciuta come un angioletto, dormiva tranquilla. Dopo i convenevoli andammo a riposare. Alla mattina, al nostro tardo risveglio, ci accolse un bel sole caldo e un cielo azzurro che mi rasserenarono un po’. Era sceso mio suocero per incontrarci e così feci conoscenza con nonno Giacomo, un uomo ancora in gamba, con capelli e baffi bianchi ma ricco di sangue e di vitalità. Pranzammo e verso le tre venne un’altra macchina a prenderci per portarci a Itala Superiore; vi giungemmo che era già scuretto e non so precisarti l’impressione che mi fece: certo qualche cosa di tetro, di misterioso, di morte! Ripensai al tuo paese delle Calabrie e inorridii; camminai malsicura fra i ciottoli sconnessi e giungemmo a casa. La mamma venne subito: non volevo credere ai miei occhi, era un esserino esile e bianco tutto avvolto in panni neri, anche il capo. Non potei vederla in viso perché era scoppiata in dirotti singhiozzi invocando Peppino. Me la presi fra le braccia cercando di consolarla ma tremavo e piangevo anche io. Piangevano tutti: Lino, Orazio, il papà, la mamma. Non avrei mai creduto che un morto fosse così vivo e presente e avesse tanto potere sui vivi! Poi Orazio e Lino fecero sentire la loro au-torità e si riprese un po’ di calma. Cenammo e andammo a letto. La prima notte trascorsa in quel letto, così differente dal mio, e in quella stanza che non ero riuscita a distinguere, fu una notte di tormento. Era la prima notte che dormivo accanto a mio marito dopo giorni di vicinanza fraterna; per quanto desiderassi stringermi accanto a lui, per chiedere conforto e protezione, mi rannicchiai invece in un lato del letto, ostile a tutto e a tutti. Una gran tristezza m’invase l’animo e amaramente e in silenzio piansi: perché? Non lo so. Sfogo dell’anima troppo oppressa da emozioni differenti. Sentivo Lino sull’altra sponda del letto soffrire per la mia musoneria, ma restando immobile e stizzito e rattristato per la mia freddezza. Io per la sua. E così passammo la nostra notte nuziale entrambi corrucciati, entrambi vicini ma, chissà perché, lontani. Più i giorni passavano e più mi abituavo alla casa e al paese: mi vedevo circondata da tante cure e attenzioni alle quali non ero abituata. Quanto affetto, quanta cura per la mia persona! Servita a tavola, servita a letto nella più completa inerzia, con il solo compito della mia toletta personale. Divieto assoluto di fare qualsiasi lavoro, anche il più piccolo. La mamma è come una fata silenziosa, leggera, che accudisce a tutto, senza che nessuno se ne accorga. Così bianca ed esile… dove prende tanta energia? È la prima ad alzarsi ed è l’ultima a coricarsi. Mai stanca si nutre come un uccellino ed è in continua ammirazione per i suoi figlioli. Incominciai a girare per il paese, a fare qualche visita bene accolta dappertutto, con dolci, frutta e amarene. Potei finalmente cogliere con le mie mani le arance e gli altri frutti dagli alberi, con grande piacere. Gustai fichi d’India e banane e carrube siciliane. Mangiai con gusto cannoli di ricotta, dolcissima pignolata, torroni, mandorle ghiacciate e altre leccornie. Il vino squisito mi saliva subito al cervello annebbiandomi la vista. L’olio è saporito, io e Fulvia ne siamo ghiottissime. Ne facciamo uso e abuso! Sfido… dopo tanta siccità!

 

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