Il rosso fiore della violenza XVII puntata

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di Matteo Ricucci

 matteo ricucci

“Sei il solito matto, Michele! Non le hai menate abbastanza tu le mani durante gli anni scolastici con la tu mania di dare la caccia ai criptocomunisti?” Michele aveva militato nelle fila del M.S.I. e, invasato d’ideologia mussoliniana, trascorreva la gran parte del suo tempo nella sede del partito e nei cortei antimarxisti. A dire il vero la natura della sua violenza era piuttosto goliardica che politica: aveva la mania di fare scherzi da preti alle sue vittime designate, come riempire gli zaini dei colleghi di feci cavalline, nascondere un cane sotto la cattedra del professore di filosofia, socialista democratico, bucare le gomme dell’auto del sindaco che capeggiava la giunta comunale di sinistra. Purtroppo per lui, le vittime dei suoi scherzi non sopportavano il suo spirito goliardico e, stufi delle sue bravate, una notte, dopo avergli chiuso il capo in un sacco, fu bastonato tanto da mandarlo in ospedale per un mese. Costretto dai genitori e diffidato dai carabinieri, rallentò la sua militanza politica, ma non riuscì, ciò nonostante, a recuperare il tempo sottratto agli studi, perciò, dopo l’esame di maturità, rinunciò di iscriversi all’università. Finalmente la corriera giunse in caserma: ad attenderli c’era un sottufficiale dalla faccia arcigna e con grossi baffi a manubrio come andavano di moda cinquant’anni prima: era un gigante di statura, con il cranio pelato e lucido come una palla di bigliardo. Tutto il suo aspetto generava l’impressione che egli si cibasse delle teneri carni dei suoi allievi. “Cocchi di mamma, per voi è finita la pacchia! Questo non è più l’accogliente nido della famiglia, qui non c’è più il rifugio del caldo seno materno, né l’ovetto sbattuto, né il bacetto della buona notte. Se c’è qualcuno che proprio non può farne a meno, sono pronto a fare io le veci della sua mammina”. Scoppiò una risata generale. “Silenzio! Vi accorgerete che in questo posto non si ride mai, caso mai accade il contrario, ci siamo capiti?! Adesso mettetevi in fila per due”. Il gruppo fu preso dal panico, sembrava una torma di animali che, perso l’orientamento, sbanda in mille direzioni diverse. L’Istruttore li fissava con un piglio feroce e, nell’attesa, fremente di collera, si batteva i pugni chiusi sulle cosce. Alla fine, vista l’inutilità di ogni sforzo, si lanciò sui primi due che gli capitarono sotto le mani e li tenne fermi davanti a sé: “Gregge di pecore impazzite, disponetevi dietro questi primi due! Da dove venite, smidollati, da un ovile? Ah, m’è capitato proprio un bel gregge questa volta. Se è vero che mi chiamano il terrore delle reclute, vi giuro che in una sola settimana farò di voi dei perfetti soldati da parata. Vi manderò il prossimo Due Giugno a sfilare per i Fori Imperiali, davanti al Presidente della Repubblica! Per fila destra, march!” Seguì un altro inizio di sbandamento, ma poi, infine, il gruppo si mosse nella direzione indicata. Le reclute entrarono in un vasto e disadorno camerone dalle pareti di un colore grigio sporco e dal forte odore di chiuso. “Alt! Riposo!” Urlò l’Istruttore la cui voce rimbombò per i vasti spazi dell’androne, come la voce di un ciclope. “Adesso spogliatevi nudi come vi ha fatto mamma; lasciate i vostri indumenti ammucchiati per terra, passeranno a ritirarli, catalogarli e, quando vi sarete stufati di questa pacchia e deciderete d’andarvene via, se non se li sa-ranno mangiati le tarme, li potrete ritirare al magazzino”. I ragazzi si spogliarono velocemente e ognuno rimase nudo come un verme, solo con la propria vergogna e con la paura d’un prossimo comando. “In riga e in fila indiana! Avanti march!” Il corteo si snodò, ondeggiante e insicuro, intimidito della propria nudità, preceduto dall’Istruttore che li guidò nel locale delle docce. “Qui dovete lasciare il vostro personale puzzo di civili. D’ora in poi sarete al servizio dello Stato e perciò emetterete un altro particolare puzzo, quello dei suoi ubbidienti servitori. Un puzzo che fa arricciare il naso a tanti bravi cittadini i quali, però, quando si trovano nella merda, formano il magico numero 113 e noi, ossequienti e zelanti, accorriamo per tirarveli fuori”. Il rumore dell’acqua scrosciante, fredda e sferzante, il vociare nervoso ed eccitato, di tanti giovani, faceva pensare a una bolgia dantesca. Mario e Michele fecero in modo di restare vicini per sentirsi meno soli e per avere il privilegio di scambiarsi le prime impressioni. “Accidenti, questo sì che è un uomo! Sfido io! Deve avere tre coglioni come Bartolomeo Colleoni, cui somiglia anche fisicamente”. Disse Michele. “Non ricominciare con il mito mussoliniano della Storia: l’uomo ch’era diverso da tutti gli altri uomini poiché a lui soltanto era stato concesso d’impugnare la sacra spada del Destino!, anche quella volta tu affermavi che Mussolini aveva avuto in dono dal fato tre coglioni e che somigliava pure lui al condottiero Bartolomeo Colleoni. Non t’è bastato quello che t’è accaduto in quella occasione?” – “Altri tempi, altri tempi. Ero molto giovane e inesperto, troppo entusiasta e troppo in evidenza. Ma ora con una divisa, sarà diverso: ci sarà da menare le mani, vedrai! Aspetta che mi capiti a tiro la prima manifestazione sindacale della C.G.I.L. e allora sì che rideremo” – “Caso mai riderai tu, non io. Comunque tu sei un po’ matto, anzi ti chiedo un favore: non parlare di politica, quando sei con me. Tu dovresti ancora ricordare che ai tempi della scuola, non m’è mai piaciuto il tuo modo d’agire”. “Stai tranquillo. Te l’ho già detto che sono molto cambiato: la politica non m’interessa più. Caso mai c’entra la mia voglia di rifarmi delle bastonate prese a suo tempo. Sono convinto che queste siano le occasioni e il modo di ripagarmi con gli interessi” – “Io non credo che qui ci sia qualcuno disposto a concederti la licenza di picchiare chi, quanto e quando vuoi”.

continua

 

 

 

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