Ricordi di un Casettà settima puntata

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Continua il racconto di Walter Filoni

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Zemma e Marì de Petriolo

A circa due terzi delle Casette, dalla parte sinistra verso l’Ospedale, si apre un varco, o meglio, una strada che conduce a valle, con due vasche adibite a lavatoio. Era questo frequentato da due lavandaie di nome Zemma e Marì de Petriolo. Lavavano per lo più biancheria per una ristretta cerchia borghese. Era un lavoro che svolgevano di solito di notte, per avere la possibilità di asciugare il bucato e consegnarlo (tempo permettendo) il pomeriggio successivo. È noto come nella notte i rumori vengano amplificati. Le due iniziavano il lavoro a voce alta, addirittura accompagnate da grida e dal rumore provocato dall’impatto della biancheria sulla parte esterna del lavatoio, rumore che i casettà’ definivano “schjoppàre”. Questo fracasso disturbava da molto tempo il sonno di un giovane, abitante a poca distanza dal lavatoio. Costui, una notte in cui era veramente esasperato, pensò di prendersi una rivincita con una burla. Indossò allora un grande lenzuolo bianco, tenendo una lanterna accesa nell’interno. Di soppiatto, silenziosamente e al buio, arrivò vicino alle due lavannare e cominciò ad agitare il lenzuolo. In un istante si levarono alte grida di aiuto e Zemma e Marì si dettero a una fuga precipitosa . La corsa finì al portone del parroco don Giulio Taffetani della chiesa del Sacro Cuore. Questi aprì il portone e raccolse le voci trafelate della due lavandaie, che, spaventatissime, chiedevano si dicessero mille messe di suffragio a quella “anima benedetta”. Fu così che finalmente quella… anima benedetta recuperò il sonno perduto.

 

La madia

Madia, oggetto misterioso? Per molti senz’altro! Si tratta di un mobile che un tempo si trovava in ogni cucina. Era costruita in modo di poter, ogni settimana, preparare il pane. Nell’interno era ricavato un parallelepipedo cavo di legno con le sponde inclinate per contenere una certa quantità di farina, munito di chiusura mobile superiore.

la-mattora

Il semplice manufatto allora si manifestava come un eccellente e indispensabile collaboratore nella riuscita della preparazione del pane. Alla sera veniva sciolto nella farina il lievito naturale rappresentato da una piccola quantità di massa, conservata dall’impasto precedente, in acqua tiepida, perché l’elemento lievitante (saccaromicis) iniziasse la trasformazione. Il mattino seguente, le mani prodigiose delle donne amalgamavano l’insieme, ottenendo un impasto morbido e vellutato. Componevano pagnotte poi protette da un panno, al riparo da eventuali correnti d’aria che avrebbero compromesso la lievitazione stessa. Collocavano il preparato in canovacci o teli perfettamente puliti in una tavola di legno, coprivano l’insieme con coperte affinchè non si interrompesse quel gonfiore e alla fine consegnavano il tutto allu botticillu,il padrone del forno, panificatore a sua volta, sito in una piccola via parallela alle Casette. Ogni giorno, poiché l’avvicendamento era continuo, da esso proveniva un profumo, una fragranza incomparabile. Quel pane, raggiunto il laboratorio Bocca, incantava per sapidità, colore, morbidezza, appetibilità. Ecco, spontanea, si fa avanti la causa-effetto. Come mai è scomparso tutto questo ? È forse un azzardo ricorrere ai paragoni ma non se ne può fare a meno. Anzitutto le materie prime impiegate: l’acqua veniva da una fontana a getto continuo, sita a metà Casette, ove l’approvvi-gionamento avveniva con secchi e brocche. Era di qualità eccezionale, priva di ombra di carbonato di calcio, patina bianca visibile sulle pareti delle pentole di oggi. E poi la farina, oggi invidiabile, proveniente da colture ove gli avvicendamenti agronomici erano rispettati per diversi motivi: anzitutto quel grano era stato ottenuto da colture in appezzamenti di terreno ove aveva sostato, almeno tre anni prima, erba medica. Questa erba non aveva soltanto fornito generosamente ottimo foraggio al bestiame, ma aveva arricchito di sostanze naturali il terreno. Anche perché durante la sosta aveva ricevuto deiezioni liquide di origine animale, ricche di azoto ammoniacale, microflora, che si univano naturalmente allo stato molecolare della terra. Queste sostanze, difficili da analizzare, per via osmotica raggiungevano il chicco di grano rendendolo ricco e forte. Inoltre, il saccaromicis, grande dono della Natura, non ha mai tardato al suo compito: sappiamo come questo enzima, “vigile e attento”, sosta nella pruina fuori dal chicco dell’uva per entrare subito in funzione appena il glucosio, contenuto nella polpa, si rende disponibile, per tradurlo in alcol. Esige buoni uvaggi, come buone e sostanziose farine. Rende buono tutto. Conserva nel tempo la morbidezza del pane anche dopo diversi giorni. Non è forse questo il trionfo della Natura? prove inconfutabili di madre Terra, espressioni delle meravigliose bellezze del Creato. Permettetemi a questo punto di prendere in prestito da Leopardi, che a me piace: e il naufragar m’è dolce in questo mare…

 

 

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