Decifrata la “capsella” di Santa Maria a Pié di Chienti

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Presso la Basilica “quam cappella vocant” di Santa Maria a Pié di Chienti, miracolosamente scampata alla recente alluvione, si è svolta una cerimonia semplice ma significativa per la storia del territorio piceno. L’Associazione “Francia antiqua”, con l’ausilio dello sponsor  “Idea Brillante” di Montecosaro, ha fatto dono all’edificio sacro di un pannello, appeso all’ingresso, in cui si parla della “capsella” (scatola-reliquiario in pietra) custodita nella Basilica. È una storia affascinante che parte dal lontano 410 d.C., che viene minuziosamente descritta da Emanuela Properzi, la studiosa che ha curato la traduzione di tutte le scritte incise in ogni dove nella steatite della capsella. Sul coperchio la scritta latina (ANICIUS MEROZIUS OPPORTUNISSIME GENITUS PAULINUS LEO PAPA PRAEPONERET MONASTERIO ADDUCTIVI BEATI SANCTI MEROZII OSSA TUI SANCTI GENERIS SANCTI FELICIS SERVUS ADVENTO RODELLO) sta a significare: “Merozio Anicio, più propriamente nato (battezzato) Paolino Leone Papa destinò al Monastero dell’attrattivo Beato San Merozio le ossa della tua santa stirpe

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In quanto servo di San Felice per l’avvenuto taglio (devozionale) della barba”. Per comprenderne appieno il significato, e la storia che ha condotto la capsella qui, dove ora si trova, vi proponiamo il testo scritto dalla ricercatrice Emanuela Properzi:

“Correva l’anno 410 d.C. Melania e suo marito, Piniano Anici, affidarono tutte le chiese e le comunità monastiche da loro costituite nel Fermano ai Monaci basiliani. I due coniugi riservarono la chiesa episcopale di Falerone a Paolino Merozio Anicio, loro congiunto e vescovo di Nola, e consegnarono alla stessa Chiesa una piccola capsella di steatite. In questo scrigno il futuro San Paolino avrebbe deposto la sua barba consacrata a San Felice. L’iscrizione presente sul coperchio ne indicava, e ne indica tuttora, il contenuto devozionale. Nel VII secolo, poco prima della distruzione della chiesa di San Paolino a Falerone, i monaci misero in salvo il piccolo reliquiario di pietra affidandolo alla Chiesa, ugualmente basiliana, della comunità femminile di Santa Maria a Piè di Chienti. Nella capsella venne successivamente inserito l’atto di donazione che il califfo di Bagdad, Harun-al-Rashid (ricordato quale protagonista del libro di Mille e una notte), fece a Carlo Magno. Il Califfo, in cambio forse di un tacito assenso all’invasione della Sicilia, aveva donato all’Imperatore del Sacro Romano Impero, un piccolo lembo di territorio nella città di Gerusalemme comprendente il luogo del Cenacolo e del Santo Sepolcro. Ludovico, successore di Carlo, nell’834 concesse il dono carolingio al Pontefice. Questo, a sua volta, incaricò il Vescovo di Fermo di gestire per conto della Chiesa di Roma nella Città Santa il piccolo territorio gerosolimitano. Nel 1089 il presbitero Atto, incaricato dal Vescovo, partì da Fermo per Gerusalemme per ricoprire il ruolo di priore di Monte Sion. Nel 1111 Atto dovette tornare a Fermo perché l’imperatore Enrico V riottenne il Priorato gerosolimitano nella sua personale disponibilità. Atto tuttavia riuscì a portar via, dalle distrutte Chiese gerosolimitane di Santa Maria Le(gi)tima (probabilmente Santa Maria dei Latini) e di Santa Maria Maddalena, delle reliquie. Queste vennero depositate nella capsella insieme con il documento attestante la donazione, ormai priva di valore, del Priorato gerosolimitano.

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A questo punto occorreva una prova scritta attestante la veridicità di questo documento consegnato alla chiesa di Monte Cosaro. Lo scritto correva, però, il rischio di tradire la presenza di ciò che si voleva nascondere. Si pensò allora di “usare” la stessa capsella come attestato dell’avvenuta consegna alla chiesa del documento. Potrebbe essere stato San Bernardo a inviare nelle attigue chiese di Santa Maria a Piè di Chienti e San Giovanni, divenute di competenza dell’Ordine claravallese, uno dei suoi più esperti amanuensi (e criptografi), il monaco Ilderico (il cui nome compare sul lato sinistro del coperchio). Ilderico, esperto più di codici che di epigrafi, come si evince dall’uso delle lettere minuscole e delle abbreviature in uso nei codici, ricorse, con le capitali maiuscole, all’impiego abbondante di note tironiane. La scritta CARBONE (tra la seconda e la terza riga della scritta riguardante San Paolino) si può decriptare in CAR(tula) BO(na) NE(gotiatione). Sul retro del coperchio è criptata la seguente importante annotazione: sunt cetera vere digna. Compare la cifra araba 834 per indicare l’anno della consegna del documento all’Episcopato fermano da parte della Segreteria pontificia. Nella capsella si ricorda che San Bernardo da Clairvaux, dalla “gloriosa sede franca”, liquidò la badessa Adelberga, rese onore ai vescovi fermani Ugo e Atto e diede la sua approvazione alla costruzione di una chiesa più grande che inglobasse entrambe le chiese. Le monache si spostarono allora presso la chiesa dell’Annunziata (poi Santa Maria della Misericordia).

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Nella costruzione del nuovo edificio la capsella fu rimossa dalla pietra d’altare e collocata alla base dell’altare della chiesa superiore dove, nel 1926, fu trovata. Avevano fatto bene i Vescovi fermani, con la complicità di San Bernardo, a voler nascondere il documento nella capsella sistemandolo lontano da Fermo (nell’isolata Chiesa di Monte Cosaro) perchè nel 1176 le truppe dell’Arcivescovo di Magonza, poi nel 1191, per conto di Enrico VI, le schiere di Marcovaldo di Answeiler, e infine Federico II, lo avevano cercato distruggendo la Cattedrale fermana e l’attiguo Archivio”.

Da questo piccolo scrigno meraviglioso si ottiene la ennesima conferma, se ormai ce ne fosse ancora bisogno, che la Francia era qui, che Carlo Magno era qui, che la storia partiva dal nostro territorio. Va da sé che, sotto l’occhio vigile di don Lauro, ad apporre il pannello è stato l’architetto Medardo Arduino.

Fernando Pallocchini

 

 

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