Come era Macerata più di 70 anni fa

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Nota del Direttore: per un lungo periodo il prof. Dante Cecchi collaborò con La rucola: era davvero una cara persona dalla sottile autoironia! Iniziò con questo articolo che pubblicammo in tre puntate e che oggi vi proponiamo in un unico pezzo. Buona lettura.

 

Penso che sarà cosa gradita ai maceratesi che hanno 60 o 70 anni o più ma, anche, perché no?, ai giovani che ne hanno 50, 40, 30, 20 o anche meno. E saranno memorie prese concretamente dalla mia vita e non dai libri. Mio padre era di Santa Croce, mia madre delle Casette. Si erano conosciuti a un ballo di Carnevale (in quel tempo si ballava solo di Carnevale) perché, allora, a Macerata esistevano libere associazioni rionali e gli unici tre rioni erano quelli delle Fosse, delle Casette e di Santa Croce. Era cortese usanza, anche se i ragazzi dei tre rioni prendevano a sassate quelli che sconfinavano nel loro territorio, che a Carnevale i rappresentanti di ogni rione invitassero al loro ballo anche quelli degli altri due. Mio padre, presidente della “Società della Colomba” di Santa Croce, fu invitato al ballo organizzato da quello che poi sarebbe divenuto mio nonno materno, presidente della società delle Casette e fu a questa festa che mio padre conobbe mia madre. Si sarebbero sposati anche subito, così forte fu il fulmine, ma ci fu la guerra (quella del 1915-‘18) e mio padre tornò solo nel 1919. Nel gennaio del 1920 si sposarono e nel ’21 nacqui io, nel rione delle Fosse: maceratese perfetto tra quelli nati fuori dalle mura perché nato fossarolo di padre santacrociaro e di madre casettara. A tre anni mi mandarono all’asilo infantile “Ricci” (ora ristrutturato) poi alla scuola elementare, un anno in anticipo poiché ero un mostro d’intelligenza! Avevo sette anni quando, col “Giro aereo d’Italia”, inaugurarono il “campo di fortuna” (non di aviazione!) di Sforzacosta (ora non c’è più) che era stato allestito dal mio nonno materno, imprenditore edile e dai suoi muratori. Questo nonno mi voleva un gran bene e mi portava sempre con sé. Andavamo spesso a seguire i lavori a Sforzacosta, a piedi e il nonno, cacciatore, con il fucile in spalla. Strada facendo riempiva il carniere con gli uccelli che, pelati e cotti nel cantiere, sarebbero stati il nostro pranzo (quasi come andare oggi al supermercato!). Macerata non era nuova alle imprese aviatorie poiché, nel 1912, come mi raccontava mia madre, il poeta dialettale Mario Affede, il 27 marzo, fece un manifesto in cui annunciava “ufficialmente” (naturalmente senza firmarlo) che due giorni dopo, alle ore 14, sarebbero atterrati a Sforzacosta “sui campi de Cintió”, dove poi fu il campo di fortuna, tre aeroplani che l’anno prima avevano combattuto in Libia. Ma il 29 marzo comparve un altro manifesto in cui era scritto che, per le avverse condizioni atmosferiche (in quei giorni era piovuto molto), l’arrivo degli aerei era stato rimandato di cinque giorni (dal 27) per dar modo al terreno di asciugare. Figuriamoci l’entusiasmo dei maceratesi! Il 1° aprile per corso Cavour e via Roma fu tutto un passaggio di gente diretta, a piedi o in carrozzella o in bicicletta, a Sforzacosta. Moltissimi altri avevano preso il treno. Siccome gli aeroplani sarebbero atterrati alle tre del pomeriggio e la giornata era molto bella, tutti avevano portato, in una “smalletta”, la roba da mangiare per il pranzo. A Sforzacosta, ai bordi del campo, lo spettacolo era meraviglioso. Verso le tre cominciarono gli allarmi ma degli aerei nemmeno l’ombra. Alle cinque, da una casa di contadini, si sollevò un enorme pesce rosso aerostatico (gonfiato da aria calda per farlo sollevare) e tutto fu chiaro. Fortunatamente per molti anni non si seppe chi avesse organizzato lo scherzo. Crescevo normalmente ma non tanto! Per un difetto del mio intestino non digerivo il latte, nemmeno quello materno e mia madre lo dava a una mia coetanea, di nome Zova (proprio così, chissà se leggerà queste righe!), con grande delusione di mia nonna materna che esclamava costernata: “ ‘Ssu fatigó’!” Naturalmente il fatigó’, cioè un ozioso, uno che non vuol lavorare, ero io. Tutto andò bene all’asilo e così alle scuole elementari, anche se mia madre non poteva sopportare che io facessi colazione (la colazione non è il pranzo! Piantiamola di chiamare la colazione a posto del pranzo, se no un invitato invece di venire alle 13 ti viene alle 8 del mattino!) mangiando gli avanzi della cena. Non capiva che non facevo apposta e allora, stizzita, mi diceva che facevo come “li vollettà”, cioè quelli delle Fosse, unici a Macerata a fare quel mestiere umilissimo che li faceva sudare d’estate e anche d’inverno mentre arroventavano i pezzetti di ferro per fare “le vollette”. Una “casettara” non poteva dire una offesa maggiore di questa senza scendere nel turpiloquio. Quanti abitanti aveva Macerata in tutto il territorio del Comune? Circa 26mila, la metà dei quali dentro le mura e l’altra metà a Villa Potenza, Sforzacosta e nelle campagne. In queste era diffusissima la mezzadria, che ora non esiste più e tante erano le case coloniche. Pensate che bello spettacolo era la notte, con le stelle su in alto e le luci delle case dei contadini in basso, per chi lo contemplava dalle “mura da sòle” o da quelle “di tramontana”. Non esistendo altri borghi eccetto quello delle Casette,  quello delle Fosse e corso Cavour, la campagna arrivava a toccare quasi le antiche mura della città. Siccome abitavo dalla parte delle Casette e i miei nonni paterni a Santa Croce, nel pomeriggio della domenica tutta la famiglia Cecchi andava a far visita a essi e si tornava a casa che ormai era scuro. In quel periodo avevo sei anni, un mio fratello cinque, un altro (poi morto di peritonite a tredici anni) ne aveva quasi quattro ed era nata anche mia sorella: noi tre facevamo la strada a piedi mentre la piccolina era portata in braccio da mia madre. Prima della partenza c’era il rito della pulizia e della vestizione. Mamma iniziava da me e, dopo aver finito, mi faceva sedere su una sedia raccomandandomi di stare fermo e passava al secondo. Finito che aveva anche con lui gli faceva le stesse raccomandazioni. E cominciavamo a giocare! Quando aveva terminato anche con la più piccolina, spesso, doveva ricominciare da capo. Era disperata. Una volta, tutto pulito, iniziai a giocare con mio fratello e mi arrampicai su per una pianta. Sceso, mi accorsi che avevo la camicia tutta impiastricciata di pece! Mia madre cadde affranta su una sedia e io, finalmente dispiaciuto, compresi che avrei dovuto comportarmi diversamente. Ritornando a casa dopo essere stati dai nonni, da Santa Croce alle Casette la strada da percorrere era abbastanza lunga e stancante e, nel mese di giugno, mio padre mi dava il suo cappello per prendere le lucciole che, dalla campagna, arrivavano fino alle mura (in questo modo per pigliarle correvo qua e là e facevo il doppio della strada!) e che regolarmente liberavo prima di arrivare a casa. Ricordo ancora il mio pianto quando, una sera, schiaccia una lucciola senza volerlo e nel cappello rimase per vari minuti una piccola scia di luce fosforescente. A vent’anni, nel 1941, mi chiamarono alle armi perché c’era la guerra: potevo vincerla io che avevo pianto su di una lucciola morta? Partendo per combattere pregai Dio che non mi facesse ammazzare e neppure ferire nessun “nemico” e Dio mi esaudì. E ha salvato, in tre o quattro occasioni, anche me dalle loro pallottole. Altrimenti, chi avrebbe scritto queste righe di ricordi? Qualche maleducato screanzato e, per dire una insolenza in dialetto, “fanellu”, cioè “orfano di cervello”, forse avrà pensato che sarebbe stato meglio che non mi avesse salvato. Ma, intanto, l’ha fatto e io l’ho sempre ringraziato! È bene che finisca qui il mio racconto. Certo i giovani che lo leggeranno che io, anche senza volerlo, avrò colorito e “mitizzato”, come si dice oggi, una realtà che era ben diversa da quella odierna. Vi assicuro che ho cercato di non farlo. Rispetto al tempo di allora oggi abbiamo fatto progressi impensabili, che però abbiamo pagato e paghiamo con altri guai perché, come dice un nostro grande scrittore “non tutto quello che viene dopo è progresso”. Per lo meno i giovani non morivano andando a cozzare con l’auto contro una pianta o un muro e oggi, nella nostra provincia, ne muore uno per notte. In un anno 365. Tutti, fateci caso leggendo i giornali, verso le quattro o le cinque del mattino, uscendo da certi locali, quando invece dovrebbero stare a letto, a fare il settimo od ottavo sonno. Nemmeno c’era, nella nostra provincia, né la grande né la piccola criminalità: le case avevano sempre la chiave nella toppa e noi ragazzi, giocando a nascondino, andavamo a nasconderci dentro le abitazioni, sotto i letti, facendo piano per non svegliare chi dormiva. Passavano gli anni senza che ci fosse un omicidio. Vi pare poco?

(Dante Cecchi, pista coppo e bisnonno per grazia di Dio e della Madonna della Misericordia)   

09 ottobre 2014

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