Umberto Peschi: una lezione che dura nel tempo

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In casa passava qualche donna ad aiutarlo ad ore, magari quando lui non c’era per avere più libertà di azione. Una delle ultime che ricordo, donna non giovane che limitava il suo compito a poche e precise faccende, si era operata alle corde vocali e non poteva esprimersi a voce. Che lui fosse presente o no, gli scriveva brevi messaggi su biglietti che deponeva in evidenza sul tavolo. Erano comunicazioni riferite al lavoro eseguito o piccole rivendicazioni sui compensi, ma non mancavano commenti sui fatti del giorno. Peschi faceva una raccolta di questi biglietti, quasi si trattasse di un diario o di un carteggio a distanza. Ma una volta salite le scale del laboratorio dislocato sui piani alti c’era solo il lavoro, finalmente! Un lavoro senza tempi né date, come un gioco infinito. Questo era il menage di Peschi negli ultimi anni. Questi il suo carattere, la sua semplicità, la sua libertà. E così era sempre stata anche la sua arte, aperta, libera, senza obblighi e confini. Era ben ferma in lui la consapevolezza che fosse una cosa importante, la cosa più importante della sua vita; capace di favorire e trasmettere cose a loro volta importanti: insomma, una fede! Che ci fosse o no occasione di professarla a parole, nel segreto una fede forte e radicata come la vita stessa. La persistenza dell’idea del tarlo, per tanti anni, aveva dato titolo a questa sua fede, assumendo fisionomia oscillante tra luci ed ombre, tra pieni e vuoti, proprio come erano le sue forme, e in definitiva la vita stessa! Forse era stata una idea casuale, ed anche la prima definizione e il nome stesso dell’insetto che ne figurava protagonista erano venuti per caso. Sarebbe potuto essere formica, o termite, come ne aveva viste in Africa. Ma poi la idea del tarlo aveva preso piede nel suo immaginario in maniera più tenace, acquisendo consistenza di poetica. Dietro a quel tarlo c’era un sistema di immagini e di significati articolato e complesso. Egli aveva cercato di spiegarlo a più riprese, ma sono sicuro che quel che diceva era ben poca cosa rispetto a quel che intendesse poi nel fare. Aveva consapevolezza che per la riuscita di un’opera si dovesse attua re un coinvolgimento completo delle virtù  consce e inconsce dell’artista. Anche per questo diceva che nulla avviene per caso, né si può fare un capolavoro in due minuti; a monte di ogni creazione c’è una storia che dipende, oltre che dalla esperienza dell’autore, anche da una fatalità: le sorti di una misteriosa avventura d’intuizioni e di scoperte. E poi, in ogni sua opera c’era chiusa una regola artigiana inderogabile, quella del lavoro ben fatto. Ripensando molto in generale all’opera di Peschi mi accorgo che egli ha operato nell’arte come “ricercatore di equilibri”. Tutta la sua ricerca è impostata su questo: esprimere attraverso forme o combinazioni di forme, un ideale di equilibrio, di ordine, di razionalità. Anche quando tale logica appare contraddetta da elementi di contrasto, questi sembrano inseriti con funzione di catarsi, per indicare la contraddizione delle logiche umane, i limiti e le perversioni che la storia frappone. Gran parte della sua poetica del “tarlo” ruota attorno a queste sensazioni, e alla convinzione che l’arte abbia in sé la capacità  di trascendere la realtà percettibile, attraverso un’ascesi della materia e della forma. In fondo, lo stesso rifuggire di Peschi  dalla figura e quindi da una concezione iconica dell’espressione, sembra suggerito da questa esigenza di vedere e di dimostrare al di là del visibi­le, significati e relazioni più profondi, altrimenti non raggiungibili. La scultura di Peschi che conservo in salotto, quella forma verticale, quasi totemica, “tarlata”, appunto, simmetrica ma scomponibile e trasformabile, forte nel bugnato, aspra eppure accattivante, quella forma, dicevo, che osservo trasfigurarsi nelle diverse ore del giorno e della sera, con la luce del sole o di una lampada, come tante altre che ho in mente di lui, specie se appartenenti al periodo centrale della sua ricerca, mi appare drammatica come i peggiori guai che conosca, ma anche razionale e determinata come le cose più  giuste e sacrosante in cui credere. Peschi l’avrà concepita, se non di getto certo dopo una breve riflessione, con la consueta ansia iniziale e conclusiva soddisfazione. Potrebbe essere il suo autoritratto. Ci ritrovo, oltretutto, quella sua attenzione di valenza etica e sociale, e una dimensione universalistica: l’emblematicità insomma che egli cercava in ogni sua forma. L’avrà osservata lavorandoci nella penombra delle sue stanze o nella fioca luce del laboratorio, accostata a poveri mobili in un ambiente apparentemente spento e muto. Eppure, di certo, ne aveva già considerati gli aspetti e i significati che io, con lentezza e casualità riesco a percepire solo attraverso lo scorrere dei giorni, degli anni e delle situazioni. La sua lezione dura nel tempo, ed è lezione d’artista. 

22 novembre 2016

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