Neve

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La néa. Quella caduta nel gennaio 2017 si potrebbe definire anche: lu neó der ‘diciassètte (la grande nevicata del ‘17) e non solo perché questa neve è caduta nell’anno che reca questo numero, ma soprattutto perché è caduta, in grande quantità, proprio a lu jornu de Sand’Andò (nel giorno della ricorrenza di Sant’Antonio abate) più precisamente martedì 17 gennaio del 17mo anno del XXI secolo. Forse un segno, per chi crede nei presagi ed è convinto che il numero “17”, specie se associato al II giorno della “nostra” settimana (così come al V), non sia portatore di buoni auspici? Magari sarebbe interessante conoscere gli accadimenti delle ore 17:17 di quel preciso giorno…
Un antico proverbio ricorda: Sand’Andò de la varba vianga se non ha mmiangato mmianga. (Per il giorno di Sant’Antonio Abate, la neve a terra se non ci sarà, ci arriverà). Ricordiamo che Sant’Antonio è tenuto in grande considerazione dalla gente di campagna, poiché è il protettore degli animali. C’è da dire che quest’anno la nevicata si è in qualche modo aggiunta a lu terremotu, cioè alle ricorrenti e forti scosse telluriche che continuano ancora a far tremare la terra dell’Italia centrale. Vicende, queste, che hanno portato disagi, lutti, e non poche tragedie e che hanno originato discussioni di tutti i generi e a tutti i livelli, soprattutto riguardanti le norme da utilizzare per risolvere alcune problematiche di prevenzione, ma anche di emergenza e di post-emergenza. Tutto ciò conduce la mia coscienza di quasi settantenne, a inevitabili riflessioni che attingono ai miei ricordi, anche i più lontani. Lu neó der ‘vendinove (La grande nevicata del 1929) credo sia stata la più importante nevicata, almeno per queste zone, della quale molte persone serbano ancora una vivida memoria, e questo sia per la quantità, sia per l’intensità della precipitazione, così come per la sorpresa che generò col suo arrivo. Io ne percepii la drammaticità quando, 30 e anche 40 anni dopo, ebbi modo di sentire dalle vive voci dei malcapitati protagonisti, che ne parlavano tra loro, i ricordi di quei momenti vissuti direttamente o indirettamente. Il fatto fu rievocato nel 1993 da Pippo de Rongó in una delle sue ultime poesie, intitolata: Li più grossi niù dell’utumu seculu (Le più grandi nevicate dell’ultimo secolo” di Albino Graziosi, nel libro: “Le mie poesie”, a cura di B. Salvucci e C. Pulerà, edizione: Circolo C.S.I. “Ugo Staffolani”, Colmurano, ottobre 1995). La prima grossa nevicata di cui ho memoria è del 1956 quando, all’età di otto anni, percorrendo le rotte (quella specie di sentieri utilizzati per accudire gli animali, puliti dalla neve da mio padre con una pala da muratore) e i miei oc-chi non arrivavano all’altezza della neve. La luce elettrica (con tutte le comodità a essa legate), non andava certamente via… semplicemente perché non era ancora arrivata e ci si arrangiava (arrangiarsi, a quei tempi, era quasi una regola di vita) có la luma a petrojo, có la luma dell’ojo vóno o ar massimo, có la citilena (con il puzzolente lume a petrolio, con il lume alimentato dall’olio d’oliva o con la più “lussuosa” lampada ad acetilene, alimentata con carburo di calcio e acqua). Per riscaldarsi si usava il camino (che non era in alcun modo collegato a impianti di diffusione del calore in tutta la casa). Purtroppo, la legna disponibile era poca, quindi, per non patire il freddo, ci si rifugiava nella stalla, dove si poteva fruire del tepore emanato dalla massa corporea degli animali e li frichì jocava llà lu mestecà, quill’atri ‘checcósa da fà lo ttroàva sempre (i bambini aiutati dalla loro fantasia giocavano nel “pagliume”che era destinato a diventare mangime o lettiera per gli animali, mentre gli altri, cioè gli adulti, trovavano sempre qualcosa da fare, magari occupandosi della preparazione di quel che poteva servire durante la bella stagione, quando il lavoro sarebbe stato sovrabbondante). Per quel che riguardava i danni prodotti dalla neve ognuno si teneva i suoi (quell’anno portò con sé anche la calavernia, la galaverna, e i conseguenti danni piuttosto seri agli ulivi, determinati dalle gravi gelate delle cortecce già bagnate)  e vi  poneva riparo come meglio poteva, magari grazie all’aiuto del prossimo, che era compensato con la reciprocità o con l’eterna gratitudine. Quando la neve era molto alta, poteva capitare una emergenze medica. Se ci fosse, a esempio, l’assoluta necessità di consultare un dottore (che poteva trovarsi a chilometri di distanza), partivano anche diversi uomini e in numero tanto maggiore quanto più impegnativo era il percorso, in modo da dare il cambio al primo della fila. E se il medico avesse ritenuto necessario vedere il malato, gli uomini lo avrebbero accompagnato fino al capezzale dell’infermo, per poi riaccompagnarlo a casa. Aiuti pubblici? Non solo non se ne parlava, ma nemmeno ci si pensava! A proposito di scorte alimentari, quasi tutto quello che s’immagazzinava prove-niva da ciò che la Famiglia raccoglieva durante l’estate, e per la macinatura dei cereali, così come per l’acquisto del sale o dello zucchero, non si aspettava l’ultimo momento, ma si rinnovavano le scorte quando queste erano ancora sufficienti per altre 2 settimane, perché: ‘na nignitura..! (se fosse arrivata un’abbondante nevicata, si sarebbe potuto far fronte a ogni eventuale emergenza). Nel 1968, con la diffusione della meccanizzazione agricola, allargammo le nostre prospettive “entrando a mezzadria” in un’azienda di circa dieci ettari, dove era già presente un trattore cingolato Fiat 27. A quel mezzo, ingegnandomi, agganciai a traino una lopa (ndr: detta anche lupa), uno spartineve fatto con tavole di legno con cui cominciai ad “aprire” qualche tratto di strada. Per tutto il resto si era rimasti nel passato. Il giorno di Natale del 1975 cadde una grande quantità di neve, e purtroppo “il comune” che non era ancora attrezzato per fare la pulizia delle strade, non poté far nulla per agevolare tutti i suoi “cittadini”. La nostra Famiglia aveva comprato un trattore da 55 cavalli a quattro ruote motrici, al quale, per l’occasione, adattai la lopa e mi attivai, per il solo piacere di farlo, a spazzare oltre tre chilometri di strada, anche perché nel vicinato c’era chi sarebbe voluto andare a Messa (naturalmente a piedi, perché a quei tempi non spaventava il pensiero di dover percorrere a piedi qualche chilometro) in maniera più agevole. A tale proposito vorrei “dilettarvi” (in questi momenti di smarrimento lo spero ardentemente) raccontandovi un curioso episodio: partito da casa mia col mio “trattore spartineve”, all’arrivo a ogni casa successiva ricevevo immancabilmente sorrisi, ringraziamenti e l’offerta di un liquore accompagnato da un: “Te rréscalla” (Ti aiuta a combattere il freddo); e io ne accettavo in piccola quantità, tanto per ossequiare la gentilezza e l’atmosfera particolarmente gioiosa. Quella sorta di rituale non mancò di ripetersi per più di dieci case, dove qualcuno che voleva partecipare più attivamente alla mia “impresa”, saliva sullo spartineve per dare maggior peso, così da pulire più a fondo la strada. Arrivati al borgo, non mancammo di fermarci al bar, dove fino alla fine della Messa officiata nella vicina chiesa, finimmo con lo scambiarci non solo impressioni e complimenti ma anche offerte di bevute, alle quali, almeno in un paio di occasioni, non seppi dire di no. Giunse così il momento di ripartire per la via di casa, e avviandomi verso il mio spartineve mi accorsi che alcuni uomini, pronti a salire sul mezzo, indossavano il tanto salvaguardato vestito “della festa”, che avrebbe dovuto accompagnarli per “anni e anni”di cerimonie, più o meno solenni.  Dopo qualche  decina di metri,arrivammo presso un incrocio dove qualcuno, come me, aveva avuto il piacere di aprire la sua strada con un sistema simile al mio. Costui, liberando la strada, aveva ovviamente prodotto dei punti di neve pressata, e quando li attraversai la lopa fece le sturcinelle (lo spartineve diede degli scossoni laterali). A quel punto tutti i miei sfortunati compagni di viaggio finirono lunghi distesi a terra! Accertato che nessuno si fosse fatto male, ciascuno accettò la sventura prorompendo in una sonora risata, anche se, nel frattempo, nessuno mancò di allungare gli occhi sui gomiti per controllare l’integrità del vestito nuovo. Oggi, ripensandoci, mi domando: se quella mattina fossi stato un po’ meno accondiscendente e fossi riuscito a rifiutare con più decisione quelle offerte di liquori… quelle finali e travolgenti “risate” ci sarebbero state oppure no? Mah! A tutt’oggi ricordo di essermi sentito lucido e con ottime capacità di giudizio. Comunque, di una cosa sono certo e cioè d’aver sempre continuato a dare il massimo delle mie energie per “combattere” i disagi arrecati dalla neve a me, alla mia Famiglia e anche al mio Prossimo. Ho scritto“storie” da me vissute non perché mi ritengo una persona speciale, ma solo perché era ed è il modo che credo riesca a farle rimanere impresse nella memoria, sia di coloro che hanno affrontato le vicissitudini di “una era” più cruda dell’attuale, sia di coloro che non le hanno “vissute”. Tornando al tema della neve posso dire che, mentre ancora mi scuotono le drammatiche cronache che ruotano attorno a essa, continuo a riflettere sulla gravissima situazione verificatasi con l’eccezionale nevicata nell’eccezionale ciclo sismico. Pensiamoci un attimo e immaginiamo cosa sarebbe potuto succedere se la stessa quantità di neve fosse caduta con la presenza di un seppur moderato vento, pensiamo agli accumuli di neve che si sarebbero potuti produrre nei vicoli dei paesi o negli avvallamenti montani e stradali sottovento, pensiamo a cosa sarebbe potuto succedere se fosse piovuto. Immagino gli effetti che può produrre la pioggia, anche non intensa, sulla neve e alla situazione che si sarebbe potuta creare con il sistema fluviale consegnatoci dalla modernità, dove a la spalla de lu fossu no’ je se guarda più (l’argine dei corsi d’acqua non si cura più) a causa dello spopolamento delle campagne e a causa delle leggi “ambientaliste” a “tutela” del territorio. Il giudizio puntuale dettato dall’esperienza dei vecchi non si ascolta più, perché i giovani, da sempre esuberanti, ora sono purtroppo attratti (e per lunghi periodi) non solo dalla tv ma anche da ogni altra moderna diavoleria “video-fonica”. Sono ormai fin troppo distanti i tempi in cui ci si metteva gli uni accanto agli altri nel silenzio rotto solo dalle parole di chi, nelle sere invernali, occupava il lento scorrere del tempo vicino al fuoco del camino, parlando. Sono troppo lontani i tempi in cui si stava talmente vicini durante i lavori in campagna, da scambiarsi racconti di vita passata perché fossero insegnamento e monito per il futuro. Forse si dovrebbe cercare di più nella memoria, naturalmente oltre a osservare con particolare attenzione il presente, per meglio delineare e affrontare il futuro e per evitare “stupidi sorrisi di circostanza” in emergenze che fanno sempre troppo male. E tutto questo a partire dalle più alte cariche dello Stato, fino a chi resta con le “mani al sen conserte”, aspettando qualcuno che faccia ciò che dovrebbe e potrebbe fare per primo.

30 aprile 2017

 

 

 

 

 

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