Quanno nascìa un fricu

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Antiche consuetudini

 

culla-anticaLe nostre donne, dei tempi antichi, non erano come quelle di oggi. Quando restavano incinte non facevano né analisi né ecografia: se ne accorgevano dal ritardo del ciclo, lo dicevano prima alla madre, poi al marito. Il medico veniva chiamato solo nel caso qualcosa non andasse per il verso giusto, altrimenti non se ne vedeva la necessità. La madre lo diceva al padre e il marito, anche lui, a suo padre ed entrambi i vecchi rispondevano: “So’ porbio condendu, spirìmo che scìa maschju!” Sì, perché a quei tempi si pensava che il maschio era manodopera, mentre invece la femmina loro credevano lavorasse poco e, per di più, al momento giusto se ne sarebbe andata con la dote. La donna aiutava in tutto quello che poteva fare e le venivano risparmiati solo i lavori più pesanti, dove magari c’era da sollevare un peso impegnativo. Quando arrivavano le doglie lei correva verso casa, se non ci fosse riuscita avrebbe chiesto aiuto e l’avrebbero portata sul letto. Infatti, fino a qualche decina di anni fa, in campagna se nascìa, se cambava e se murìa drendo casa. La donna che non partoriva in casa era additata da tutti e se dicìa che non adera vona! Se poi uno non fosse morto in casa era come se fosse morto due volte, tanto era il dispiacere. Il medico dimetteva dall’ospedale chi stava tanto male, da essere vicino alla fine, per farlo morire tra le pareti amiche della sua casa. L’uomo andava via da casa solo per andare a fare il soldato; la donna quando si maritava e questo in genere avveniva con qualcuno del vicinato, vista la difficoltà che c’era per viaggiare. In tempi molto antichi, in caso di parto, prima di mettere la donna sul letto si chiamava il marito che si doveva sistemare sul letto come un cane, ginocchia e gomiti poggiati al materasso, veniva coperto con un lenzuolo, poi la moglie si metteva seduta su di lui in modo che lui, uomo forte, le trasmettesse la sua forza per spingere. In tempi più vicini a noi, invece, c’era l’usanza di mettere sopra la pancia della partoriente i pantaloni del marito che, pare, avessero lo stesso scopo: dare forza alla spinta per far nascere il bambino. A far nascere li frichitti era la mammana (termine onomatopeico a significare donna che con le mani aiuta a nascere, fa diventare mamma) e solo se il parto fosse stato difficoltoso sarebbe stato chiamato il dottore che, tra l’andare e il venire, spesso arrivava quando era già troppo tardi. Di creature ne morivano intorno al 35/40%, tra il nascere e i primi giorni di vita. Se tutto fosse andato bene, ‘na orda che lu fricu adèra statu ‘nfasciatu da li pè’ fino a sotto li vracci, veniva messo in braccio al padre: se era una femmina prima la baciava poi je facìa fa’ sopre lu lettu tre cutulozzi a voler significare: la vita ti sia tutta facile come è facile fare questa cosa; al maschio, invece, fatta la stessa cosa, con un dituccio gli faceva schiacciare un insetto come a dire: sarài patrò’ de l’animali!, poi lo portava di sotto e gli faceva sfiorare con la manina tutti gli attrezzi che avrebbe usato da grande, quindi lo riportava alla madre. Se qualcuno in famiglia sapeva lavorare il legno il bimbo avrebbe avuto una culla, altrimenti se tirava fori l’urdimu cassittu de lu comò, quello situato più in basso, quasi a terra, e lì si preparava il posto per farlo dormire. Ai bambini che nascevano in inverno, specialmente ai meno vispi, il primo bagnetto anziché con l’acqua si faceva con il vino cotto, che era il liquido più forte e che certamente gli avrebbe trasmesso più vigore. Sul collo gli si metteva, legato con un filo, un sacchettino con dentro un pizzico di massa di pane che, essendo fatto con il lievito, doveva dargli la spinta per crescere meglio. Sul lobo di un orecchio, maschio e femmina, je se facìa u’ muscittu e je ce se mittìa un coraju rusciu, contro l’immidia. Al maschio, cresciuto, gli si toglieva mentre alla femmina i buchi restavano per poterci mettere li pennendi, gli orecchini di corallo. Crescendo poco, il bambino veniva messo dentro la mattora, accanto alla massa del pane e tutta la famiglia stava intorno a recitare le litanie, affinché la Madonna facesse la grazia di farlo crescere, come il lievito faceva crescere la massa del pane. Per i primi 40 giorni dal parto la donna non poteva uscire di casa e se fosse stato proprio necessario mandava un ragazzo a prendere una tegola sul tetto e con quella in testa usciva, a significare: staco fòra scì ma sembre sotto la protezzio’ de lu tittu de casa. Il bimbo, finché veniva allattato dalla madre, stava dentro una canestra o una cassettina con le ruote, ben imbottita affinché fosse morbida e calda, in modo che la mamma lo portasse sempre con sé mentre sfaccendava poi, al momento opportuno, lu ‘cchjappava su, lu cammiava e lu ‘llattava sinza perde’ tembu! Così si faceva e si è fatto per secoli. E i nostri vecchi, nonostante tutto, dicevano: “Quanno nasce un fiju adè un regalu che ce fa il Signore!”

Cesare Angeletti

 

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