La torre di Pitino

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di P. Betafonet

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Che alla mostra fotografica“Scoprire un’altra Italia” esposta in Cina c’è anche la fotografia del castello di Pitino, dovrebbe essere stata, per il Sindaco di San Severino Marche, una notizia piuttosto inaspettata e agrodolce, come una insalata di melograni e rucola. Dolce perché Pitino, pur così malridotto dall’Amministrazione comunale, da Expo 2015, da Enit (Ente nazionale del turismo italiano) e dal Fai (Fondo per l’ambiente italiano), è considerato, attraverso 210 scatti (dieci per ogni regione del Bel Paese) una delle meraviglie di una Italia tutta da scoprire. Una rucola perché saranno ancor più numerose e meno evitabili le rimostranze di turisti che, volendo andare a vedere e a godersi questa meraviglia, alla fine del “tour” non è improbabile che restino a dir poco contrariati (tanto per non dire “incazzati”). La strada, nel tratto finale è ridotta a poco meno di una mulattiera: né l’andare né il ritornare sono sicuri. Come avvertenza, basterebbe ricordare questo incidente (non unico): l’auto di due stranieri svizzeri è andata in panne a metà salita a causa di buche, sassi e pietre; l’ultima delle tre auto che venivano dietro questa, nel fare retromarcia per decine di metri, si è incagliata tra la recinzione di filo spinato (sic!) messo sul greppo della strada e non a confine. Inoltre il soccorso ACI, nel salire in senso vietato dall’altra parte per caricare l’auto degli Svizzeri, incontra, a metà costa, quella che scende con dentro tre giovani venuti dall’università di Bruxelles a fotografare Pitino col drone.

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Immaginate la babele dei diverbi e delle liti a causa di chi debba fare una retromarcia impossibile sia nella salita che nella discesa. Ma, continuando a parlare di Pitino per la curiosità e l’interesse di tutti, l’argomento merita che si dica ben altro. Data la notorietà goduta nei secoli passati dal suo castello, in tutto il Maceratese e oltre, si dice ancora così: Pití bello se vede da Castello – Pití bruttu se vede dapertuttu. Ma – come tutti i detti – neanche questo è tutto vero. Perché Pitì è bruttu per come è riduttu! solo per come è stato ridotto dal Comune di San Severino, Pitino è brutto per davvero. E per sapere com’è proprio riduttu bisogna andarci a vederlo; oppure (per evitare quello che si è detto) leggere il recente volume “PITINO- D’in su la vetta della torre antica”: un libro e un autore (se non altro per il nome: Pacifico Fattobene) straordinari davvero. Libro, però, già esaurito e che si può acquistare solo richiedendolo a “Edizioni Simple” di Macerata. Ma, per sapere che dice, non occorre comprarlo. Perché racconta soprattutto queste tre cose: 1) che “era certamente ed è tuttora, benché mozzata, quella di Pitino la torre medioevale più panoramica della Marca d’Ancona, del Piceno e, forse, dell’Italia centrale”.

 

p 21.1Un primato, questo, che Pitino (con una simile torre,“con una frase di Virgilio tradotta da Annibal Caro,grande antica possente bellicosa”) corre sempre il rischio di perdere; 2) che Pitino, “antico insediamento d’altura posto a controllo del territorio, è una finestra da cui vedere e conoscere, con uno sguardo dall’alto su quasi tutto il Piceno, le Marche di Ancona, Macerata, Camerino e Fermo: la terra, cioè, di sintesi e di confine di una Italia quasi sconosciuta tra l’Adriatico e l’Appennino”; 3) che Pitino è, per questo, “un primario bene culturale del territorio marchigiano … d’ interesse pubblico davvero eccezionale”; e che andrebbe, quindi, sottratto alla giurisdizione esclusiva del Comune che ha non fondato ma distrutto Pitino, e che nemmeno pone un qualche rimedio all’aggravarsi della fatiscenza di quel poco che resta di esso. Parole gravi e spiacevoli di un’analisi implacabile, queste del libro. Per cui bisognerebbe, se incontestabili, fare quello che il libro suggerisce: rifare ciò che già si fece più volte in passato, cioè convincere i Comuni di Treia, Tolentino, Camerino, Cingoli e altri (che a turno, separatamente e insieme possedettero Pitino) a coalizzarsi di nuovo per difendere un bene di tutti dalla distruzione operata e permessa senza tregua dall’Amministrazione sanseverinate per sua incapacità e avversione congenite.

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Terminiamo questo spiacevole discorso sull’argomento Pitino, trascrivendo dal libro solo la parte finale, per far sapere, a chi non può salire sulla vetta della sua torre, quello che si può provare e ammirare soltanto da lassù. (…) «Penso di poter concludere che… lo sguardo rivolto sul panorama dall’alto di una torre antica come questa, crea uno spazio nuovo nella nostra mente. Uno spazio capace di darci una dimensione delle cose diversa dall’ordinario; e che rimane ancora il più adatto a rapportarci con l’ambiente che, per volere divino (com’io penso e mi auguro) e non per caso (che è idea terribile e senza rimedio, se vera), ci ha fatto nascere e ci contiene. Perché è guardandolo dal punto più in alto che si è indotti ancor più del solito a pensare al nostro rapporto col mondo: che facciamo parte di un’immensa vita; e al nostro destino: dove siamo, da dove veniamo e dove andiamo; per quale scopo si vive; che c’è o che ci aspetta al di là dell’ultimo orizzonte, oltre la luna, più oltre e più su delle stelle che c’inducono a pensare a quel Lassù (che pensiamo buono e che non sta solo al di là di esse) e a porlo, così fece, da ultimo, un credente Leopardi come Principio ancora più alto e prima di loro.

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«È a queste e al prossimo chiaro di luna che penso mentre caduto lo splendore del sole dietro quelle nubi che di bruno rossiccio si fanno man mano di fuoco e richiudendomi dietro la botola prendo a scendere gli scalini di legno al sopraggiungere dei primi respiri del crepuscolo sospinti da un fresco e lieve tirare di vento e prima che la sera tutto imbruni e poi accenda i suoi lumi in cielo, nei centri urbani della regione e nella campagna e dintorni. Mi dico che tornerò sotto questa torre più tardi, quando sarà dolce e chiara la notte, e i paesi vicini e lontani risplenderanno dalla marina verso le colline e la montagna come altrettante galassie e ammassi stellari. Accovacciato alla sua base, attenderò che la luna, lasciando furtiva sbadigliare assonnato il suo Endimione, spunti dall’infinito seno dell’Adriatico e prenda a inargentar della notte il velo. Senz’aspettare che giunga al culmine del suo arco celeste, la guarderò stupito come Leonardo; e, nell’alto silenzio fatto da essa, come lui mi dirò: la luna, densa e grave, densa e grave, come sta, la luna? E, vedendola vagar così muta, le ripeterò: che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Badando poi al suo sereno andare, la guarderò nel suo far capolino giocosa da dietro le nubi sopra il tenue sbiancare della marina o la seguirò come Petronio alta gradiens Appennini nobilis juga: diretta verso il dorso nudo e scabro delle creste del Vettore e la Sibilla di poco orlate da neve, prima del suo tramontare dietro l’Appennino. E da lì sotto la torre, con le spalle appoggiate di nuovo alle sue mura, ancora una volta e come faceva Catullo, proverò a spiarla per scoprire che fa: per chi, nascosto tra colline o su quelle montagne, per chi è insonne la figlia del sole, a chi sta facendo la corte la dea della notte: a qual suo dolce amore sorride, stasera, la luna».

 

 

 

 

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