L’amicizia tra due artisti: Mario Mafai e Gino Bonichi

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Uno dei più cari amici del maceratese Gino Bonichi, in arte Scipione, fu Mario Mafai. Si conobbero in un modo abbastanza strano. Mafai era in prigione di rigore (non amava fare il militare) e uno che era con lui gli parlò di questo marchigiano, atletico ma malandato con i polmoni, che andava in giro per Roccaraso facendo le caricature ai villeggianti. Gli dette il suo indirizzo a Roma, via Cola di Rienzo 190. Il Mafai, uscito di prigione e liberatosi della divisa, dopo essersi divertito per un po’ nella capitale, ripensò a quell’indirizzo, che non aveva dimenticato. Andò a trovare Gino Bonichi e questo è il suo ricordo…

 

Il ricordo

Era a letto, in una stanza un po’ misera e semibuia, un viso regolare, un po’ congestionato, la fronte alta, due occhi penetranti e chiari. Mi accolse con affettuosità e una cordialità così generosa, dove c’era tutta la riconoscenza per la visita inaspettata. Gli domandai come stava. “Molto meglio, mi alzerò presto” mi rispose. “Fuori è molto bello” dissi. “Io amo molto questa stagione, gli alberi rimettono le foglie, i mandorli dovrebbero essere fioriti”. “Si sentono profumi per le strade e non si sa da dove spuntino fuori”. “Li conosco tutti, quelli delle magnolie, della spiga, delle viole” e muoveva le narici sensibilissime, sorridendo. Gli domandai dei suoi lavori; erano su un taccuino e mentre me li porgeva si scusava: “Sono cose da nulla, da non prendersi sul serio. Ho sempre disegnato per passatempo, invece a me piacerebbe studiare seriamente”. “Potresti entrare all’Accademia di nudo” gli risposi. “Non mi sento sicuro, non sono stato mai a scuola di disegno”. “Non preoccuparti, non è molto difficile. Tu disegni già bene”. “Dici sul serio?”. “Certamente”. I suoi occhi s’illuminarono, fu un attimo, poi ritornò pensieroso. “Come sarei felice, disegnare è sempre stato per me un grande desiderio, non so se potrò riuscire, non so se mi sarà per-messo”. Si fermò silenzioso per un pezzo, gli occhi tornarono a fissarsi sul quadro della finestra. Quando lo lasciai mi raccomandò di tornare a trovarlo spesso. Quella notte Gino Bonichi avrà certamente sognato grandi fogli di carta bianca e fantasie di linee e chiaroscuri, ed io ritornai a casa contento; mi sembrava di essere più ricco. Avevo trovato un amico e ci saremmo potuti mischiare come un mazzo di carte, come scrisse più tardi Scipione. In seguito migliorò; cominciò a uscire di casa, da principio un poco alla volta, poi più spesso e la nostra occupazione era quella  di girovagare dappertutto, nelle periferie, nei vecchi rioni popolari di Roma. Le giornate si facevano più calde e incantate e ogni cosa era una scoperta e una sorpresa. Vecchie strade mezze nascoste, strane piazzette con insospettate soluzioni architettoniche, in certi vicoletti palazzi cinquecenteschi con in fondo al cortile fontane silenziose gonfie di muschio e di edera, e poi campanili romanici, angioloni barocchi, frammenti pagani: non si finiva più di guardare. Verso sera si entrava in qualche osteria, un po’ di vino, qualche supplì. A Scipione piacevano molto questi ambienti e quei personaggi con il loro gergo asciutto e mordace alla Belli, scopriva in loro gli stessi tratti visti sui ritratti marmorei di senatori pagani e di dignitose opulente nobildonne romane. Familiarizzava facilmente con vetturini, popolane, operai, riusciva a entrare nei loro discorsi, si interessava dei loro affari e dei loro guai e dopo pochi minuti, come se niente fosse, lo sentivo chiamare: “A sòra Menica, a sòr Augusto”, come se li avesse conosciuti da molto tempo. Ormai si era rimesso in pieno. e in quei pomeriggi primaverili mi raccontava della sua vita e della sua malattia con un tono scherzoso, come se si trattasse di una qualsiasi avventura e nemmeno sua; descriveva il suo passato di sportivo, le situazioni curiose in cui si era trovato, i miracoli, i garibaldini, che nel suo gergo rappresentavano gli sbocchi di sangue. La malattia era il suo cattivo nemico ma lui non la temeva, sentiva le sue membra solide, giovani e i suoi muscoli duri, il sangue che circolava ricco sotto la pelle; inoltre c’era anche la sua volontà, la sua intelligenza e infine anche i miracoli, dalla parte sua. Era sicuro di vincere un nemico debole, in fondo, che non valeva la pena di prendere sul serio. Questo nemico però non lo abbandonò mai, lo teneva alle spalle, qualche volta gli sfuggiva, lo riagguantava poi, sembrava non accorgersi di lui e gli era sopra di nuovo quando meno se lo aspettava; un’ombra che certe volte sembrava sparire, come di notte sotto la luce dei fanali per poi ricomparire all’improvviso, allungarsi e ritornare minacciosa. Quella volta ce l’aveva fatta, quel mezzo gigante dalle spalle ampie e dalla figura ben piantata. “Mi sembrava dovesse finire arrivai al sanatorio mezzo morto, più volte comparvero i garibaldini, ormai non c’era più speranza, poi di colpo sparì tutto, mi ripresi”. Ricadde un’altra volta e anche lì fu lui che vinse; ma alla terza fu sconfitto e non si rialzò più. Così, in una giornata d’autunno del 1933 Scipione cessò di vivere. Io rimasi smarrito; eravamo abituati ormai da tempo a dirci tutto, a comunicarci le nostre impressioni, a risolvere i problemi insieme. Poi piano piano ripresi il mio cammino e questa volta da solo”. 

23 gennaio 2019  

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