Analisi di chi in Congo c’è stato: Kindu, Regeni, Ambasciatore italiano assassinato

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Al di là dell’umana pietà per le vite spezzate da banditi di strada del nostro giovane Ambasciatore in Congo, del nostro Carabiniere di scorta e dell’autista congolese, si scatena la rabbia nel pensare che quel “safari” è stato affrontato dai protagonisti con una leggerezza da turisti.

Il caso Regeni – I comuni  turisti si comportano da ingenui, in quanto nulla sanno del luogo dove si trovano e a quali esperienze pericolose possono incappare per la loro dabbenaggine. La vicenda mi riporta alla mente quella del giovane Regeni, che non era una “spia” (e, in quanto, tale non sarebbe stata uccisa, ma “scambiata”). Regeni era solo un giovane, intelligente e preparato ricercatore, un nostro figlio, che si era esposto senza “coperture”, e aveva fatto troppe domande in un luogo dove il riserbo ti garantisce di avere salva la pelle, in uno Stato dove i diritti individuali contano poco a causa del terrorismo. Forse, qualcuno in occidente doveva fare saltare gli accordi economici di Al-Sisi con l’Italia e il giovane Regeni è stato il capro espiatorio sacrificato per fare saltare quegli accordi: altrimenti, per quale altro motivo fu fatto trovare il corpo seviziato nello stesso giorno in cui un nostro ministro e imprenditori italiani erano atterrati in Egitto per concludere accordi commerciali?

La mentalità degli africani – Adesso è inutile cercare la verità: gli esecutori materiali del massacro molto probabilmente, come da prassi, sono già stati eliminati, e gli organizzatori locali dell’assassinio sono troppo potenti e con “coperture” importanti da poterli portare alla sbarra di un tribunale internazionale. E poi, la vita di un italiano conta niente di fronte agli affari economici. Quando gli italiani vanno in zone pericolose e instabili credono di trovarsi nella loro Italia, con dei diritti e degli obblighi civili. Soprattutto credono di avere come interlocutori degli individui mentalmente simili a loro. Invece, gli africani hanno punti di vista molto diversi: dotati di mentalità tribale, ti rispettano se fisicamente sei più forte di loro, se li superi in astuzia, se ti dimostri più spietato di loro. Se ti accettano sono pronti a morire per te. Ma generalmente non ti amano…

Armamenti – Purtroppo, il nostro giovane Ambasciatore si è comportato (come avrà fatto pure in altre occasioni) con una leggerezza tale da averlo messo sempre in pericolo, per poi condannarlo a morte. È partito (sembra di capire) in un veicolo inadatto a sostenere colpi d’arma da fuoco, con la scorta di un solo militare addestrato, un Carabiniere con la sola pistola Beretta di ordinanza. Un’ottima arma che consigliavo agli ufficiali del Southern Sudan Liberation Front del colonnello Joseph Lagunel (1970), quando fui laggiù… a cui avrei affidato la mia vita… ma mai di fronte ad un AK47! Il Carabiniere avrebbe dovuto – almeno lui – avere a disposizione un FAL, unica arma superiore ai kalashnikov in dotazione di quei ribelli-banditi ugandesi, ruandesi, congolesi. E tutti i nostri avrebbero dovuto indossare  un giubbetto antiproiettile, che qualcosa protegge.

Una brutta esperienza – Nel giugno del 1966 ero in Congo. Con la leggerezza di un buonista che va a fare del bene, una notte senza luna, insieme con due missionari Sacramentini di Djelo Binza, andai a Leopoldville in un luogo dove non sarei dovuto andare. L’auto fu circondata dai soldati congolesi, sbucati dal buio, armi spianate. Fortuna volle che non spararono, nel buio, forse per timore di colpire i loro commilitoni. I missionari si fecero immediatamente riconoscere, ma invano. Ci furono parecchi minuti di silenzio totale. “Aspettiamoci la botta – mi  disse padre Rottoli, benedicendomi – Invece, dopo un minuto, uno dei soldati disse “Allez!”, facendo cenno col Garand di andare via immediatamente. Erano giorni  di frizione con i Belgi per l’uranio del Katanga, che trafugavano in pani di piombo. Mobutu voleva fare un massacro di belgi, tanto per dare un esempio. Sapemmo poi che salvò gli occidentali il Nunzio Apostolico, impedendo a Mobutu di commettere un grave errore. Intanto ci eravamo rifugiati, insieme ad altri civili, presso la missione militare italiana comandata dal colonnello Conte, che addestrava i piloti congolesi.

La strage di Kindu – Trovammo i militari italiani nelle piazzole con i mitragliatori in posizione e i canotti a motore pronti per fuggire a Brazzaville, al di là del fiume Congo, che in quel punto è largo cinque chilometri. I nostri militari ci dicevano: “Non faremo la fine di quelli di Kindu”. Ossia, non ci faremo ammazzare come i nostri 13 aviatori ONU a Kindu. I nostri aviatori, che non avevano seguito il consiglio di rimanere all’aeroporto perché non era prudente andare oltre quella cintura di sicurezza a causa di soldati congolesi in rivolta, andarono a pranzo – disarmati – in un villino dell’ONU, a un chilometro di distanza dall’aeroporto. Sembra – ed ecco la leggerezza – che i  caschi blu non fossero armati. Quindi, non ci fu difesa per i  nostri ragazzi. I quali furono uccisi dai rivoltosi e poi squartati: il cuore e il fegato andò ai capi dei ribelli congolesi, gli arti furono appesi al mercato, in vendita alla popolazione del villaggio.

Il macabro acquisto – È ciò che raccontavano pure italiani che all’epoca avevano attività commerciali a Kindu. Il capitano Tavernier del VI Commando mercenario, oltre a confermare la storia, esibiva tre foto degli arti appesi. Un congolese, che fu fermato con un braccio acquistato al mercato, rispose sorpreso: “Ma io l’ho pagato…”. Era solo cannibalismo rituale. Solo in Italia questa verità non è stata mai rivelata per motivi diplomatici e politici. Le foto di arti umani esposti al mercato furono offerte a un giornalista, che le ricusò. Poi le foto   scomparvero…

Una mia esperienza – Per cui, reso prudente dall’esperienza,  quando andai nel Kasai occidentale, verso l’Angola, a Masi Manimba, che significa “città della malattia del sonno”, per filmare l’ospedale del dott. Giuseppe Sapio di Torino, medico dell’ONU, e per giungere poi da padre Giuseppe Greggio, nel suo lebbrosario di Mosango, a cui “Epoca” aveva fatto una grande pubblicità, partii accompagnato da una jeep dell’Aeronautica Italiana ben armata, in quanto nella zona c’erano ancora i ribelli Simba.

Militari… – Si dice che il nostro Ambasciatore assassinato non avrebbe aspettato la scorta dei soldati dell’ONU, o dell’Armée congolese. È strano che non avesse mai sentito il detto che circola in Africa: “Mai affidare la propria vita ai soldati delle Nazioni Unite”, a cui viene aggiunto “e mai ai soldati congolesi”. Erano tra le tante raccomandazioni che ci venivano fatte a Leopoldville. Non definisco questi tipi di soldati dell’ONU come meriterebbero: infatti hanno assistito indifferenti ai massacri dei civili, come dimostra la storia dei loro interventi, salvo difendersi quando sparano loro addosso. Ma come militari non valgono molto. Stessa opinione verso i soldati dell’Armée Nationale Congolaise, l’ANC i quali, salvo i soldati katanghesi e i Leopard del colonnello Schramme, quando combattevano i Simba, non rischiano la vita in territori che non sono quelli della loro tribù.

Come ci si dovrebbe muovere – Mettiamocelo in testa: i confini degli Stati africani sono fasulli. I colonialisti hanno diviso le tribù e la situazione del Nord Kivu dimostra a quali conseguenze ha portato. Il Congo sarà sempre una polveriera esplosiva, in quanto si dovrebbe dividere in almeno 5-6 nuovi Stati tribali. Il mio amico maceratese, il maggiore Tullio Moneta del V Commando mercenario anglosassone che combatté i ribelli Simba dal 1965 al 1967 pure in quelle zone del Nord Kivu, e nelle quali ritornò  successivamente con un convoglio di camion per portare armi al coraggioso e troppo indipendente comandante del Sudan People’s Liberation Army, John Garang, che poi, da presidente del nuovo Stato indipendente del Sud Sudan, fu – appunto – assassinato con un attentato, in quanto in Africa sopravvivono i lacchè delle potenze occidentali e orientali. Tullio,  ritornato nel Kivu in tempi successivi come “intelligence”, mi assicura che la zona era molto pericolosa – come lo è oggi – e che occorreva muoversi ben armati, con diversi automezzi blindati dotati di mitragliatrici leggere e con mercenari, oppure con soldati altamente addestrati e col dito costantemente sul grilletto.

Morte assurda – Quella dei tre uomini è stata una morte assurda, dovuta a un superficiale ottimismo dell’Ambasciatore, sostenuto da un carabiniere, che si presume ben addestrato e che si sarebbe dovuto opporre con tutto il suo convincimento a quell’avventura. La colpa maggiore è soprattutto del governo italiano (o dei Ministeri che organizzano la difesa di consolati e ambasciate italiane in Africa e nel mondo). Eppure, abbiamo le migliori Forze dell’ordine al mondo; abbiamo dei corpi militari speciali altamente addestrati, ma i politici si perdono dietro a politiche pacifiste, buoniste, fraterne, ambientaliste, prive di una mentalità militare adatta a quelle zone calde; senza quindi minimamente pensare all’incolumità del personale delle nostre ambasciate e consolati.

Nassiriya – Sì, ambientaliste! Perché se a Nassiriya la base fosse stata dotata di una cintura di mine anticarro e antiuomo noi non avremmo avuto tutti quei morti. Il camion suicida carico di esplosivo sarebbe saltato su quelle mine e ci avrebbe risparmiato le lacrime di cordoglio per quei nostri figli assassinati dai terroristi. Se la prudenza e il sano timore sono mancati all’Ambasciatore, ciò non toglie la responsabilità delle forze politiche del Governo che non hanno posto – e imposto – misure adeguate da rispettare in difesa del nostro personale diplomatico.

Politici incompetenti – La scorta di un Carabiniere armato con arma corta può servire in città pacificate da forze dell’ordine. Ma in quelle zone piene di confusione tribale e con gente armata perfino di RPG- Seven anticarro, occorrono mezzi e uomini armati altamente addestrati, per spostarsi nei “trip” con almeno due automezzi armati di mitragliatrice e con un’auto senza insegne posta al centro, quando trasportano autorità diplomatiche. Altro che truppe dell’ONU o del governo congolese! Oggi, i pianti per quelle vite spezzate e per la sofferenza dei loro cari, la sofferenza di quella moglie e di quelle bambine… sono state versate solo lacrime di coccodrillo da parte dei politici incompetenti che governano.

Post scriptum- I giornalisti (almeno loro) dovrebbero sapere se le missioni sanitarie e umanitarie del Nord Kivu hanno oggi la necessaria copertura militare; oppure sono in grado di organizzare esse stesse una loro difesa armata. Non vorremmo leggere ancora di morti, o di rapiti per ottusa superficialità (come nel caso di Silvia Aisha Romano), causati dalla mancanza di una concreta conoscenza delle zone “calde” del pianeta da parte dei politici incaricati.

Giorgio Rapanelli

24 maggio 2021

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