Metodi antichi e problemi moderni: lu puzzu, lu puzzarolu, la ‘mbuzzatora e la siccità

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Oggi la carenza di acqua è sulla bocca di tutti. I nostri nonni, anche nelle annate particolarmente secche, non avevano problemi di approvvigionamento, almeno per l’ambito familiare e per l’orto. Quando si costruiva una casa colonica subito si chiamava il rabdomante, un uomo esperto nel trovare vene di acqua. Costui preso una ramo di salice, fatto a forma di Y, lo afferrava con le mani per i due rametti e, tenendo quello più lungo davanti a sé, camminava per il campo. Quando il ramo iniziava a vibrare secondo lui lì sotto c’era l’acqua. Non so quanto scientificamente ciò sia valido, certo è che i nostri terreni erano, e sono, ricchi di vene d’acqua per cui, spesso, lui ci “Acchiappava”.

A questo punto si chiamava un “puzzarolu”, che era l’uomo esperto nello scavare e poi nel costruire il pozzo; anche lui diceva la sua e se avesse approvato la ricerca fatta si sarebbero iniziati i lavori. Non c’erano macchinari e lo scavo del pozzo era fatto con il piccone e la pala a manico corto, visto lo spazio limitato di lavoro, e ciò era estremamente faticoso. La profondità oscillava fra sei e dieci metri, oltre non si poteva andare perché attingere l’acqua sarebbe stato un lavoro da ercolino. Sopra il pozzo si incrociavano due o tre robusti ferri ai quali era appesa una carrucola dove si faceva scorrere una corda. A una delle estremità della corda veniva appeso una secchia, “la ‘mpuzzatora”, così denominata perché veniva ogni volta calata “‘mpuzzata”, nel pozzo per essere riempita e tirata su. Questo consentiva di avere acqua per la famiglia e per l’orto garantendo così di avere anche verdura fresca.

Come facevano i nostri contadini a essere certi che l’acqua era potabile? Agivano in modo simile ai minatori, che per sapere se l’aria in miniera fosse pulita portavano nelle gallerie una gabbia con dentro un canarino: se questo fosse morto c’era presenza di gas. I contadini mettevano nel pozzo due o tre piccoli barbi, pesci di fiume, e questi, sguazzando liberamente nell’acqua, segnalavano che questa era potabile; la loro presenza era “l’analisi” giornaliera a dire che l’acqua era buona da bere. Secondo i nostri nonni i barbi erano anche pesci pulitori per cui non inquinavano il prezioso liquido.

L’acqua del pozzo, naturalmente fresca, era anche usata in estate come frigorifero. La sera prima si riempivano di acqua, sempre con limone, altra precauzione per renderla più sicura, e vino i bottiglioni da due litri che venivano poi messi in una cesta col manico; questa era immersa sino a che l’acqua non arrivava al loro collo. Il giorno dopo le due bevande erano tirate su “fresche di frigorifero”.

Oggi il pozzo non è più una soluzione dei problemi, però un rimedio per la siccità c’è e anche non troppo costoso. Basterebbe scavare, dove è possibile e più facile da farsi, dei laghetti che, raccolta l’acqua piovana (prima o poi piove) la mettono a disposizione degli agricoltori per l’irrigazione. Se gli invasi non sono tanto grandi le dighe possono essere fatte in terra battuta e quindi meno costose. I laghetti fatti nei posti giusti metterebbero a disposizione l’acqua per la zona agricola intorno, risolvendo così il problema siccità. I mezzi tecnici di oggi consentono di realizzare eccellenti strutture a costi relativamente contenuti. È una soluzione per alleviare i danni della e speriamo che a qualcuno venga in mente di usarla perché consentirebbe a far fronte alle sempre crescenti richieste d’acqua sia per la necessità umana che per quella dell’agricoltura.

Cesare Angeletti “Cisirino”

18 ottobre 2022

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