Vita e morte di Caterina nella Macerata del ‘400, arsa viva nella piazza del mercato

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La vasta piazza Mazzini in Macerata, a parte il mercato del mercoledì, è il regno dei piccioni, per nulla infastiditi dai bambini che li rincorrono senza problemi di sicurezza per le mamme, dato che il traffico scorre lento su di un solo lato, ben transennato. C’è molta pace nella piazza dedicata all’Esule genovese, anche nel pomeriggio, quando le pizzerie e i caffè si affollano nella bella stagione, mentre la fame di cultura è saziata da una nuova libreria gestita da giovani ben decisi a farla diventare sempre più ricca di materiale interessante. Non mancano infine numerose panchine, sempre occupate, ombreggiate da ulivi selvatici, fortemente voluti, come ben ricordo, da Romano Dezi, allora consigliere di quartiere.

Era forse questo un modo per ingentilire una piazza che sino alla metà dell’800 era stata anche il sito riservato alle esecuzioni delle condanne capitali, esecuzioni effettuate con tutti i modi e le forme possibili inventate nei secoli dalla giustizia umana. Fra queste, ce ne è una riportata alla luce dalle cronache del tempo da Romano Ruffini, impegnato da sempre e con ottimi risultati allo studio della storia locale sulla base dei documenti originali.

Correva dunque l’anno del Signore 1430 e ben 600 anni ci separano da un fatto di cronaca nera, che pur se nel corso dei secoli sicuramente non è stato l’unico è peraltro ben documentato nel “liber maleficiorum” dell’archivio priorale del Comune di Macerata. Dalla vicina Fiastra era giunta in città Caterina di Bartolomeo, sicuramente una popolana alla ricerca di una vita migliore. Dagli atti, risulta che abitava nel quartiere di San Giovanni, a poca distanza dalla piazza del Comune e dal palazzo dei Priori. Era anche vicina al convento dei frati minori, dove c’era un religioso, fra’ Grimaldo Paoloni.

Dai documenti risulta che vi fu un rapporto sessuale tra i due, senza peraltro specificare se fu un rapporto consenziente o meno. La conseguenza comunque fu una gravidanza non voluta, alla quale il frate – d’accordo con Caterina – cercò di porre rimedio con l’intervento di un certo fra’ Pietro abitante a Varano, in quel di Camerino, in grado di somministrare “aliquid quo mediante faties abortium”. L’intervento fu sì risolutivo ma tardivo, quando Caterina era ormai al settimo/ottavo mese per cui si configurò il reato di infanticidio, portato subito a conoscenza da qualcuno alla autorità giudiziaria.

Il corso della giustizia fu molto rapido, anche perché la povera Caterina dovette confermare l’accusa di infanticidio, che le veniva contestata, con la scoperta del corpo del reato. In attesa della sentenza, venne rinchiusa nelle carceri comunali sotto stretta sorveglianza. In realtà, la procedura non avrebbe previsto il carcere nel caso in cui l’imputata, o qualcuno al suo posto, avesse pagato una somma a titolo di fideiussione; era questo il modo consueto per sottrarsi alla pena con una successiva e rapida fuga dalla città, ovviamente con la perdita della cauzione versata alle casse comunali. Ma Caterina di Bartolomeo era povera e nessuno si fece avanti a pagare per lei la somma di ben 500 libbre di denari.

Del resto anche fra’ Grimaldo e fra’ Pietro, pur avendo avuto un ruolo determinante nella commissione del reato, non compaiono minimamente nei verbali ritrovati in archivio. Le pagine che trattano del fatto – scrupolosamente compilate dal cancelliere – sono molte e Romano Ruffini, da buon storico, le ha tutte tradotte dal latino curiale e sono ora divenute di facile lettura. Solo la povera Caterina, analfabeta e senza l’aiuto di un avvocato difensore perché, secondo la legge, era rea confessa, non aveva forse ancora compreso la sorte orribile alla quale sarebbe stata destinata e alla quale avrebbe potuto comunque sottrarsi se avesse pagato. Allo scadere dei cinque giorni previsti, senza un minimo di difesa scritta o orale, Caterina viene condannata sulla base delle normative comunali.

In sostanza Caterina era riconosciuta colpevole, oltre che per gli “infandos excessus”, cioè per la sua vita sessuale sregolata, anche e soprattutto per “l’improba delicta” cioè per l’infanticidio a seguito del procurato aborto. La condanna fu di conseguenza che la “…dictam Caterinam … Ignis flammis submictatur et comburatur ita quod moriatur…” nella piazza del mercato, l’attuale piazza Mazzini. Anche se è latino volgare, il senso della condanna è di facile comprensione ma preferisco non tradurlo lasciando la traduzione alla sensibilità del lettore.

Passando oggi per la tranquilla piazza Mazzini, dopo aver conosciuto questa storia, non si può fare a meno di ricordare la povera Caterina. Anche dopo tanti secoli dalla sua orribile fine. Era una delle tante donne povere, sole e indifese, che nel corso dei secoli sono state sempre le uniche a pagare per tutti. E la storia, si sa, si ripete sempre.

Siriano Evangelisti

23 giugno 2023 – tratto da “La rucola” n° 298

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