La volontaria Fabiola Caporalini, dalla sua esperienza diretta, ci racconta il Burkina Faso

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Appena tornata dall’Africa “ascoltiamo” Fabiola Caporalini, sarnanese che vive a Tolentino, volontaria da tanti anni e presidente dell’associazione “Amiciper”: organizzazione di volontariato (ODV) che opera in Burkina Faso e pure in Italia, per interventi in situazioni d’emergenza, come crisi varie e povertà. 

Cosa rappresenta l’Africa per lei? – “Istintivamente, direi, casa. È davvero qualcosa di molto profondo e radicato in me come un ambiente vitale. C’è qualcosa di ancestrale che mi unisce a quella terra, sognata e desiderata sin da bambina, per merito della mia nonna paterna. Fu lei a esortare me e le mie amiche, allora ancora bambine, ad andare a giocare con i figli di una numerosa famiglia africana, che il parroco del paese aveva accolto. Da allora sognai sempre di andare a vedere quelle terre da cui arrivavano quei bambini”.  

Il Burkina Faso? – “La parola Burkina Faso, è un composto delle due lingue più parlate (morè e diulà) che letteralmente significa Terra degli uomini integri. Per me rappresenta la sola terra nella quale la mia felicità si manifesta. È un luogo in cui sento me stessa fino in fondo. Non contrasta dunque col senso di essere a casa, lo amplifica, connotando ogni azione domestica di gioia e pienezza. Il Burkina Faso è il luogo che mi completa, mi consente di fare ciò che amo”.

Di cosa ha più bisogno la popolazione  di quella nazione? – “Di autodeterminarsi, di trovare una via per il suo sviluppo, di sceglierla da soli, di gestirsi, di esprimersi, di confrontarsi alla pari con gli altri Paesi del mondo. Questo è ciò di cui ha più bisogno il Paese inteso come istituzione civile e sociale. La gente ha bisogno di essere sostenuta e incoraggiata sulla via di una crescita sostenibile e consapevole”.

Durante le sue permanenze in Africa ha avvertito lo sfruttamento (di foreste e miniere) nei luoghi che ha visitato o dove è vissuta? – “Le miniere del Nord sono molto sfruttate dalle multinazionali straniere. Il Burkina Faso possiede miniere d’oro. La zona in cui si trovano però è divenuta preda di bande terroristiche che non lasciano scampo alla popolazione e rendono anche più pericolosa e difficile la permanenza dell’imprenditoria straniera. Nel 2020 il Paese ha prodotto 54 tonnellate d’oro, rispetto alle 45 tonnellate del 2019, un aumento del 20%, secondo il ministero responsabile delle miniere e delle cave. Circa un quarto della produzione totale proviene però da miniere non autorizzate, che danno lavoro a circa 1,5 milioni di persone. Questo significa che gli stessi abitanti del Burkina si dedicano a ricercare l’oro, rischiando la vita, senza alcuna norma di sicurezza e facendo cose impensabili, non essendo organizzati in alcun modo con tecniche e strumenti adatti, per ricavare poche pagliuzze all’anno. Spesso sono i bambini a calarsi negli stretti cunicoli sotterranei, dai quali troppe volte finiscono per non riemergere. Intere famiglie si accampano vicino alle miniere, al confine col deserto del Sahara, a quasi 50 gradi in alcuni periodi dell’anno, vivendo una vita di stenti, privazioni, fatica. Quella della febbre dell’oro sembra una vera maledizione per il Burkina Faso. Le multinazionali, che riescono ad estrarlo con tecniche adeguate, lo portano via e agli abitanti del posto resta solo la vita dei figli da rischiare ogni giorno nella vana speranza di diventare ricchi”. 

Le ONG laiche sono importanti per quel continente? – “Sono importantissime. A mio avviso lo sono proprio perché laiche, senza un credo da imporre, spesso attente anche a uno sviluppo sostenibile. Il problema è che l’insicurezza sociale, dovuta al terrorismo, spesso rende molto difficoltosi gli interventi e i progetti umanitari in molte zone. Delle ong si sono viste costrette, negli anni, ad abbandonare alcune zone del Burkina o il Paese stesso”.

La situazione geopolitica ed economica può migliorare? – “È la speranza più grande di questo Paese, l’ideale a cui tutti si appigliano nelle immani difficoltà del vivere una quotidianità fatta di assolute incertezze. In molte zone, non solo sai di non riuscire a mettere insieme un pranzo con una cena per giorni, ma hai anche il terrore che bande di jihadisti, infiltrate da criminali comuni e faide etniche, possano venire a dar fuoco alla tua capanna, a saccheggiare quel poco che possiedi e a sparare alla tua famiglia. Le scuole del Nord restano chiuse per motivi di sicurezza e la maggior parte della popolazione è composta da rifugiati che sfollano verso Sud, per finire in veri campi profughi o, peggio, sulle strade della capitale Ouagadougou”.

Ci racconti di “Amiciper” negli ultimi tempi. – “Amiciper nasce 14 anni fa e si dedica inizialmente soprattutto alla realizzazione di pozzi di acqua potabile, Ben 13 quelli realizzati in tutto il Burkina Faso. Con il progredire dell’insicurezza sociale, per non abbandonare il Paese, cerca di concentrare i progetti più importanti nella capitale e nei suoi dintorni, zone più sicure. Sviluppa molti sostegni scolastici, un vero ponte tra l’Italia, i suoi donatori e i più piccoli del Burkina Faso che vogliono andare a scuola, interviene con sostegni sanitari in ambiti mirati, come, a esempio, l’acquisto di protesi e ausili per la deambulazione. Aiuta i lebbrosi e ultimamente sostiene il centro Abasmei, a pochi chilometri dalla capitale, un luogo che accoglie i malati mentali isolati ed erranti. Una vera sfida fatta a cuore aperto e braccia tese, come dev’essere la solidarietà”.   

Eno Santecchia

1 luglio 2023

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