L’agricoltura di un popolo che si è sempre relazionato con gli altri: gli antichi Piceni

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Tutto il mondo subisce il fascino della civiltà romana, non ignora la storia dei popoli che precedettero e/o convissero con Roma, mentre gli italiani si autodefiniscono “Storici” perché conoscono la leggenda di Romolo e la storiella del “ver sacrum” e ciecamente affermano che “fu il picchio a guidare i Sabini nel Piceno”, ignorando che questo uccello era ed è stanziale, oltre che pessimo volatore. Ma, da millenni, le leggende si fanno beffe della storia.

La favoletta del ratto delle sabine è più compatibile: i Romani accettano l’invito dei loro vicini, forse per esserne agevolati nella eventuale conquista… e dal momento che ci si trovavano… Nel 268 a.C., i successori  di Romolo iniziano ad attivare una colonia a Rimini nel Piceno: T. Livio. I Piceni (da sempre alleati di Roma) dichiarano guerra a Roma e vengono sconfitti: ultimo popolo italico conquistato dalle legioni. In età repubblicana e imperiale, vengono edificati numerosi “castrum” (castello, fortezza, rocca: da Vocabula Latini Italique Sermonis – NA 1768) dove legioni, forze ausiliarie e modesti manipoli sono posti a controllo di territori strategici e di grandi vie di comunicazione. Con Giulio Cesare il numero delle legioni poste a difesa degli sconfinati territori dell’impero romano (Asia, Africa, Gallie…) crebbero molto (fino a 37?). I Romani per conquistare e per amministrare tale immenso dominio, dovevano disporre di un efficientissimo sistema logistico: approvvigionamento, stoccaggio, distribuzione di alimenti, supporti bellici, servizi informativi e postali. I legionari romani non erano vegetariani, ma si nutrivano prevalentemente di cereali, orzo, avena, legumi e, come scrive Giulio Cesare, preferivano il farro; in tempi successivi sostituito dal frumento più digeribile e più nutriente. Ricordando Furio Camillo “col ferro si difende Roma”, si potrebbe anche dire “col farro Roma conquistò il mondo”.

Si vuole far credere che la civiltà Europea inizi con l’aratro di Romolo che traccia i confini di Roma, della quale diventa Re nel 753 a. C. La storia vuole che Romolo fosse figlio di Numitore, 19° re dei Latini (dinastia dei laurentini), il cui regno nasce (con Giano, Saturno e Pico) molto prima della guerra di Troia e almeno 542 anni prima della fondazione di Roma; come si desume anche dal 7° libro dell’Eneide. Sant’Agostino in “La città di Dio” conferma: “Saturno, Padre di questo Pico… aveva regnato in Italia prima di Pico. Lui (Saturno)… radunò quegli Uomini selvaggi e vagabondi… diede delle Leggi… sotto il suo Regno si dice, ch’era il Secolo d’oro… insegnò agli Uomini a ingrassare la terra con dello sterco… per ciò essi ne hanno fatto il Dio dell’Agricoltura”. Pico e Fauno (suo figlio) non potevano smentire i loro genitori e nell’antica Roma gli dei dell’agricoltura abbondavano. Per quei popoli primitivi doveva sembrare miracoloso l’aumento della produttività dei terreni concimati con il letame: e forse non è un caso che gran parte del Piceno fosse individuata come Piceno Annonario (produttore per lo Stato di grandi quantità di prodotti agricoli).

Si sostiene che le tradizioni verbali dell’agricoltura siano state codificate in “De re rustica” libri 12, opera di Lucio Giunio Moderato Columella: nato 4 d. C. e morto intorno al 70 d. C. Per quanto attiene alla mietitura si crede opportuno fare riferimento a M. Terentius Varro Reatinus (Rieti 116 a. C. – m. 27 a. C.); i suoi contemporanei (da Cicerone ad Arunzio) gli riconoscono la vasta competenza nei vari settori dello scibile del suo tempo. Varrone parteggiò per Pompeo nella buona e nella cattiva sorte: legato di Pompeo in Spagna, tribuno della plebe, pretore e  si ritiene che collaborasse all’estensione della legge Giulia Agraria. Alla fine della sua lunga vita, Varrone riuscì a salvarsi dalle persecuzioni, ma  i suoi scritti andarono in parte persi. Il “De Agricultura” (Rerum rusticarum libri III) ha, però, superato le insidie del tempo e della politica. Ricordiamo la bimillenaria tradizione delle operazioni correlate alla mietitura, desumendola dal Libro 1°, capitoli 50, 51 e 52: Dalle Opere di M. Terenzio Varrone – Tip. Di Giuseppe Antonelli – Venezia 1846, (testo latino a fronte)”; correlandola (a conferma) alla riproduzione degli strumenti, descritti in “Dizionario delle Antichità Greche e Romane” di Anthony Rich, Trad. Ruggiero Bonghi, Milano 1869.

Capitolo 50 – “Della Raccolta e della Ragione per cui così si chiama; come anche della ragione per cui la paglia è detta in Latino Palea Stramentum. La parola raccolta, che in latino si dice Messis, non si applica in senso proprio che alle cose, le quali misuriamo: e questa voce è derivata da misurare, ossia dal latino Metiri”. Varrone descrive in questo capitolo le tre modalità di mietitura, nell’Italia centro meridionale ai tempi di Augusto:

1) Umbria – (1^ fase) “si taglia tutta la pianta con la falce rasente al suolo; (2^ fase) quando si è tagliato a sufficienza, si prende in mano un mazzo; (3^ fase) si taglia tra la spica e la paglia; (4^ fase) le spiche si pongono in una corba per farle portare sull’aia; (5^ fase) le paglie si lasciano in terra; (6^ fase) poi si raccolgono”.

Rich: Faenaria e Veruculata. “Una frullana (falce fienaia) per mietere l’erba… rappresentata sempre nelle antiche opere di arte con un lungo manico dritto, e riporta questa riproduzione da un’immagine Egizia e da altre gemme e monete”. Si ha motivo di credere che falce per mietere derivi o almeno sia simile alla falce con cui viene rappresentato Saturno, padre di Pico, primo re dei Laurentini, dalla cui dinastia deriva Romolo.

Frullana

2) Piceno “Nel Piceno si miete in un’altra maniera, adoperandosi un palo di legno incurvato, nella cui estremità si mette una seghetta di ferro. Con questa (1^ fase)  si prende un fascio di spiche; (2^ fase) si tagliano (si raccolgono solo le spighe); (3^ fase) si lasciano in piedi sul terreno le paglie per essere dipoi tagliate rasente terra.

Il Rich: “Questa falce (detta Denticulata) si usa per mietere nel Piceno, in Grecia e in Egitto” (NdA: l’uso di strumenti analoghi conferma l’importanza dell’Adriatico per gli scambi culturali e tecnici, tra civiltà assimilabili; come sostengo da molti anni). “La lama che aveva il taglio intaccato come una sega, era infilata in cima di un corto bastone leggermente piegato in fuori… e quando si adoperava era tenuta con la punta all’insù nella posizione mostrata dal nostro esempio, riprodotto da una pittura egizia di modo che il mietitore lavorava tirando in su, tagliando lo stelo alquanto sotto la spica taglia le cime delle spiche del grano. Le diverse maniere di adoperare la falce dentata e la comune, si possono vedere in due pitture, dalle tombe di Tebe, incise; da Wilkinson Manne’rs and Customs of the Egyptians, vol. IV. pp. 89, 98”.

Seghettata

Osservazioni: questo tipo di mietitura, la più razionale fra tutte le altre, è resistita allo scorrere dei secoli e dei millenni. Nella seconda metà del 1980 si ebbe una estate eccessivamente piovosa che rese impossibile provvedere alla mietitura con la falciatrice trainata dai bovini; molti agricoltori furono costretti a “fare lo stramo” (specialmente dove erano rigogliosi il trifoglio e l’erba medica, seminati nel marzo precedente). Ricordo quell’episodio: la falce era come quella trovata a Pompei, la tecnica era sovrapponibile a quella descritta. I nostri agricoltori difendevano la mano sinistra con “cannelli” di lamiera sottile o ricavati dal fusto delle canne. La mietitura dell’erba (molto cresciuta) e dei fusti del grano avveniva ai primi dell’autunno; il miscuglio, detto “lo stramo”, veniva custodito e nell’inverno alimentava i bovini. “Stramo” in latino stramentum, stelo del frumento e delle graminacee in genere. “Calepini Dictionarium 1654: strame = fieno o paglia per fare il letto ai cavalli. Gli animali se possono scelgono il loro cibo, è quindi naturale che cercassero di scartare la paglia. I nostri allevatori, prima di “stramare” i bovini, salivano sulla mangiatoia, raccoglievano “la rusura = paglia rifiutata” per arricchire la lettiera. “Non se pò sprecà le grazie de Dio” erano soliti dire gli agricoltori, dediti a far quadrare il bilancio.

3) A Roma e in altri luoghi – (1^ fase) si taglia la paglia a metà della sua altezza (da questo tipo di mietitura: messis da mezzo, metà, le messi?); (2^ fase) poi, con la stessa modalità si taglia a fior di terra e sotto la mano la paglia che sia rimasta sopra la terra; (3^ fase) per contrario quella paglia, cui è attaccata la spica, si porta per mezzo di corbe sull’aia; (4^ fase) ove si separa dalla spica; (5^ fase) la paglia si porta in un luogo aperto e alla scoperta; e forse da ciò può essere stata detta palea; (6^ fase) la spica (e paglia a essa attaccata) è portata dove verrà separata dalla paglia.   

Rich: “questa piccola falce detta Stramentaria e Messoria riproduce un originale scoperto fra varii altri strumenti agricoli in Pompei”.

Stramentaria

Varrone (Capitolo 50, sintesi) – relativamente alla paglia:  “Alcuni pensano che la paglia si dica in latino stramentum dal verbo stare, o restare sopra terra, nella stessa guisa che si dice stramen, o stame… Altri vogliono che derivi da stratus, o steso, perché la paglia si stende sotto il bestiame (lettiera). Quando la biada è matura, si deve mietere. Si dice che basta quasi un’opera (ndr: una persona) per mietere uno iugero di biada, purché il campo non sia scomodo. Le spiche mietute si mettono in corbe e poi si portano sull’aia.

Capitolo 51: Quale debba essere l’aia“Bisogna che l’aia sia un campo aperto nel luogo più elevato del medesimo, e che possa essere esposta al vento. Questa debb’essere proporzionata alla grandezza delle terre lavorate e piuttosto rotonda, e poco elevata nel mezzo, cosicché, piovendo, l’acqua non vi si fermi, e possa uscire fuori dell’aia per la strada più breve… Bisogna che sia formata di terra solida ben battuta, e specialmente farla di creta, acciocché il troppo caldo non le nuoccia, e non vi nascano delle fessure, nelle quali si nascondano i grani, vi entri l’acqua, e vi possano entrare sorci e formiche… sogliono bagnarla di morchia, perché questa è  veleno per l’erbe, per le formiche e per le talpe. Alcuni poi, per avere un’aia più solida, la lastricano, o l’ammattonano. Non mancano altri, i quali la coprono, come fanno i Bagienni (o Vagienni popoli Liguri antichissimi); perché ivi, nel tempo appunto che il grano è sull’aia, nascono sovente de’ nembi. Quando l’aia è allo scoperto, e il paese è caldo, bisogna fare in vicinanza a essa degli ombracoli (ombreggiature), ove possano andarvi sotto gli uomini, quando infierisce il caldo del mezzodì”. (NdA: Se vi capita di visitare una casa agricola marchigiana (non trasformata) potrete verificare come L’aia (detta àra) risponda pienamente ai precetti di Varrone.)

Capitolo 52: Come Separare La Semenza E Della Trebbiatura – Onde si abbia un’ottima semenza … nell’aia si raccolgono i grani dalle spiche prodotte nella migliore pezza di terra. Il che si fa con i giumenti e con la trebbia. Questo strumento si fa con una tavola armata sotto di pietre o di ferro, sopra la quale… si fa strascinare da giumenti aggiogati, onde dalle spiche si traggano fuori i grani: o con travicelli forniti di denti e di picciole ruote; questo strumento si chiama carretta cartaginese … come si fa nella Spagna citeriore e in altri luoghi. …presso altri… con giumenti, e/o battendole nello stesso tempo con pertiche… Battute che sieno le spiche, bisogna trarre in alto il grano con pale… quando soffia un vento leggiero…: con che si fa che quanto havvi misto di leggiero, ossia la lolla, si getta fuori dell’aia; e in tal maniera la biada, per essere più pesante, si ripone senza alcun mescuglio nelle corbe.

Capitolo 53: Delle Spiche Che Lasciano Addietro I Mietitori – Fatta la raccolta, bisogna vendere o coglier le spiche lasciate addietro dai mietitori, e portarle a casa: ovvero, se le spiche sono rare…, bisogna farle pascolare; imperciocché si debba aver sempre in vista che l’utile e la spesa non superi il profitto.

Considerazioni finali – Ho cercato di riprodurre i testi originali, con modeste modifiche. È questa una ricerca che pone in evidenza come anche in agricoltura i Piceni fossero più avanzati rispetto alle altre regioni e come fossero in contatto con gli altri popoli dell’area mediterranea, tanto da fare proprie le tecniche e le attrezzature. Un popolo che ha reso il proprio territorio così fertile  e produttivo da farlo assurgere alla denominazione di “Piceno Annonario”.  Ringrazio quanti hanno letto e spero che i marchigiani siano orgogliosi di essere PICENI. Lo spero, ma sono troppi quelli che alla primogenitura, preferiscono un piatto di lenticchie. Non disperate, non sono rari quelli che amorevolmente serbano antichi reperti della civiltà agraria Picena, comprese le trebbiatrici “a mano” oltre a quelle con “motori a vapore”… pur se l’ostracismo non è morto in Grecia.

Nazzareno Graziosi

8 luglio 2023

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