Un tempo, quando eravamo marchiscià magnapulenda, si diceva: “30 dì, 60 polente”

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Quando eravamo “magnapulenta” si diceva: “30 dì, 60 polente” per ricordare che i contadini marchigiani di una volta mangiavano polenta anche due volte al giorno. È stato il nostro piatto regionale per secoli, da quando dall’America il granturco, con patata e pomodoro, fu portato in Occidente da Cristoforo Colombo e poi qui nelle Marche probabilmente dai veneziani.

Oggi col mais ci si fanno pop-corn e corn flakes, ma l’uso contadino del mais era davvero a ciclo integrato: le mucche mangiavano le piante verdi e le pannocchie fresche le mangiavamo anche noi, lesse o arrosto; con le foglie secche delle pannocchie, quelle bianche interne, ci si riempivano i pagliericci del letto (che avevano delle aperture apposite perché le donne, rifacendo il letto la mattina, ci infilassero dentro le mani per smuoverle e tenerle sempre belle soffici), quelle esterne servivano come lettiera per gli animali e mia nonna le trovava speciali per accendere il fuoco. Le foglie del granturco se inumidite si possono modellare e le bambine ci facevano le bamboline. Mentre le piante secche (gambuj) alimentavano il fuoco e la cenere era un ottimo fertilizzante del terreno; anche i tutuli sgranati, soprattutto quelli freschi e spugnosi, erano bolliti per i maiali e invece quelli duri e secchi mio padre li infilzava su un bastone e, imbevuti di petrolio, ne faceva ottime torce per illuminare il tragitto in cielo alla Madonna di Loreto la notte del dieci Dicembre o comunque per far festa alle tante madonne pellegrine degli anni cinquanta…

Dopo la raccolta delle pannocchie, ad agosto inoltrato, si procedeva alla “scartocciatura”, un lavoro insalubre per la polvere che si produceva liberando la pannocchia dalle brattee  di protezione, ma che era anche una gran festa con i vicini tutti seduti in cerchio intorno al gran mucchio sull’aia: si faceva di sera, alla luce della luna o di fioche lampade a olio; i giovanotti cercavano posto vicino alla morosa per scambiarsi parole e occhiate d’intesa protetti dall’oscurità. I racconti a gruppetti si alternavano a stornelli con botta e risposta tra due cantori e la serata si concludeva per i più con la mangiata finale, in antico una polentata fatta con farina fresca, spesso polenta “rencoata”: fette riscaldate in pentola, a strati, alternati a sugo abbondante. I più giovani si trattenevano ancora a ballare, sulle note di un organetto o di un tamburello, il saltarello, antico ballo marchigiano a coppie, fatto di ritmici salti allusivi al corteggiamento (le “saltationes” risalenti a epoca preromana e picena), con l’uomo che tiene le mani dietro la schiena e la donna sui fianchi.

Ma torniamo al granturco, ormai scartocciato restava da sgranarlo: a mano coi bastoncini appuntiti o battuto sull’aia; selezionati i chicchi più belli da accantonare per la semina dell’anno successivo, il grosso del raccolto era destinato al mulino a pietra, fatto girare di solito dall’acqua di un canale o di un fiume. Con la farina gialla ottenuta (setacciata con lo “staccio fino”) si facevano focacce e in tempo di magra anche il pane, il cosiddetto “pa’ nero”. La fine più propria della farina di granturco era, però, sulla “spianatora” di faggio o di pero, sotto forma di polenta; la quale – è vero – non è stato alimento solo contadino: in città la chiamavano magari “purè di mais”, ma la sostanza era la stessa; per i contadini era la sopravvivenza: il grano conveniva venderlo, la farina di granturco li sfamava. Si diceva “la predica e la polenta è fatta pe’ i contadì” e anche il poeta Giacomo Leopardi, nella raccolta di stornelli recanatesi da lui curata commenta: “I contadì fatiga e mai non lenta e ‘l miglior pasto suo è la polenta”.

Polenta in mille varianti: dai “frescarelli” o polenta di riso al “polentone”, più duro, più alto, tagliato col filo di refe tirato da sotto in su e che si mangiava con le mani, a fette… La polenta si mangiava anche scondita, solo con un velo di formaggio pecorino; ma  si sposava coi broccoli, col sugo finto (senza carne, solo pomodoro ed erbe aromatiche), col sugo di passeri (presi con le “scarcarelle”, tagliole a molla controllate anche a distanza, oppure con la rete grande tesa tra due canne di bambù e appoggiata furtivamente ai pagliai di sera quando i poveri animali dormivano); a noi bimbi piaceva con la “sapa” (vino cotto, prima che diventasse marmellata) o riscaldata (“rencoàta”) o addirittura, quella avanzata, abbrustolita sulla brace; ci piacevano tanto le sorprese che nonna Maria nascondeva sotto la polenta, da scoprire pian piano: un pezzo di salsiccia, di carne o di formaggio… Dell’aringa sotto sale appesa sopra al tavolo a testa in giù per strofinarci a turno le fette di polenta (non più di tre volte!) ho solo sentito raccontare come cosa d’altri tempi…

Enzo Monsù

15 agosto 2023

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