Area archeologica di Urbs Salvia: ma quale Porta Gemina, quella non è una porta!

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Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’architetto Medardo Arduino relativo al manufatto che insiste nell’area archeologica di Urbs Salvia denominato Porta Gemina.

Ne “La rucola” n° 299 stata trattata la trasformazione di un bene culturale pubblico in una sorta di struttura ricettiva privata inavvicinabile, ma questo non è l’unico svilimento delle testimonianze di un antico e grande passato del nostro territorio. Ma è di certo uno dei più evidenti. Mi riferisco alla cosiddetta Porta Gemina della cosiddetta Urbs Salvia, millantato vanto del più grande parco archeologico marchigiano, svilito dal permanere di definizioni frutto di un passato in cui prevalevano le interpretazioni dovute alle fantasie personali degli addetti ai lavori sulla corretta analisi strutturale e funzionale dei manufatti architettonici, definizioni del passato che nessuno sembra voglia riconsiderare.

Orbene, premesso che nessun documento di alcun genere, men che meno epigrafico, pervenutoci dalla romanità, ha mai menzionato l’esistenza di una porta di tal nome, la prima cosa da chiederci è chi se lo sia inventato e, soprattutto, in base a quali considerazioni tecniche abbia voluto vedere una porta urbica, dove sarà una struttura alberghiera, che i cartelli turistici indicano appunto Porta Gemina. La letteratura a riguardo e le spiegazioni delle guide, recentemente ribadite dalla nuova direttrice del Parco Archeologico durante una visita da lei guidata, descrivono il sito come Urbs Salvia, e di questo la “Porta Gemina” sarebbe l’ingresso principale.

Innanzitutto è lampante che i tre “massacci” in opera cementizia che incorniciano un edificio recentissimo non hanno la minima parvenza delle strutture delle molte porte delle città romane di età augustea sparse per l’Europa e soprattutto nella nostra Italia (sono troppe per citarle tutte, ma basta vedere quella “palatina” di Torino sul web), qui al Parco avremmo una eccezionale eccezione, che contrasta col fatto che furono i romani a introdurre la “standardizzazione” delle opere edili pubbliche. Per il nostro sito, la cosa perlomeno fantasiosa, a riguardo della “Gemina” urbisagliese, è che il piano di campagna all’esterno della cinta urbana su cui si affacciano i tre massacci con l’edificio colonico restaurato, si trova grossomodo a una decina di metri più in basso rispetto all’attuale piano di campagna delle emergenze archeologiche dell’Urbe, lo stesso su cui si affaccia l’accesso alla parte posteriore dell’edificio. Non credo si debba ridondare in spiegazioni tecniche, ma un dislivello verticale di questa entità è assolutamente inconcepibile per una porta urbica, che anche i bimbi delle elementari sanno essere il varco controllato, aperto nella cortina delle mura, in corrispondenza di una strada che unisce l’interno della città alla sua periferia esterna (infra et extra moenia). Eppure l’edificio continua a essere una Porta.

Non è stato di ausilio a formulare una revisione della dicitura neppure il fatto che di fronte all’edificio carotaggi recenti abbiano rilevato limo di fiume, che può suggerire l’ipotesi che i tre massacci altro non fossero che gli antemurali di una struttura di immagazzinamento, un horreus, per la custodia delle merci che giungevano al Porto della città, sfruttando la navigabilità dei corsi d’acqua del Piceno. Questo non è l’unico errore di valutazione dei monumenti del grande parco archeologico che si trascinano per una incomprensibile forma di conservatorismo: lo stesso nome URBS SALVIA, che non ritroviamo su alcuna testimonianza originale, è frutto della invenzione di qualche erudito del passato: una città che prima si chiama URBE e poi diventa AUGUSTA, come si legge sugli embrici del tempio della Salute, non può essere la “capitale della salvia” abitata da coloni e basta, soprattutto se i suoi 40 ettari recintati potevano ospitare circa 12.000 abitanti.

Nessuno vuole riconsiderare che il cippo votivo esposto nella raccolta archeologica dell’abbazia di Fiastra, di età augustea, reca chiaramente scolpita nelle prime righe la scritta DIS DEABUSQUE URBISALUIENSIBUS che inequivocabilmente si traduce “agli dei e alle dee dell’Urbe dei Salii”, il loro centro maggiore, il capoluogo in quanto Urbe significa Capitale e anche significa Roma perché i tre sostantivi sono metonimi. Essere stata la Capitale dei Salii già in epoca preromana (sono Salii i sacerdoti guerrieri che Numa Pompilio porta con sé a Roma, quando viene fondata per davvero), è stata la condanna della storia di questo importantissimo centro, che fu, già lo scrisse don Giovanni Carnevale  (lo confermano le prove indiscutibili che ho esposto nel mio ultimo libro “Il Piceno, storia e cultura”), anche la vera capitale di tal Carlo figlio di Pipino, imperatore dei Franchi, che viveva nel suo palazzo oggi San Claudio e fu tumulato nella basilica di Aquisgrana, oggi Santa Maria a piè di Chienti.

Questo enorme capitale culturale (basta pensare al milione e mezzo di presenze a Bad Aachen, a visitare la Pfalzkapelle, farlocca trasposizione della “Basilicam quam vocant capellam Caroli”, contro le ottomila presenze a Urbisaglia) continua per un incomprensibile conservatorismo a essere camuffato da spoglie romane inconsistenti. Inconsistenti come le residue “mura romane” dell’Urbe dei Salii (non dimentichiamo che Carlomagno era un Salico) caso unico al mondo di mura romane d’età imperiale realizzate in mattoni bipedali, mentre dappertutto le mura urbiche classiche sono realizzate in opera cementizia listata, e sono spesse circa due metri e originariamente alte pressappoco quattro più la merlatura. Le mura in laterizio d’età carolingia della “Città dei Salii” sembra poggino su precedenti mura in conglomerato, molto probabilmente romane, forse semidistrutte da un sisma, come si vede in un tratto di esse.

La Città dei Salii ha subito, come la storia antica di tutta la regione picena, la damnatio memoriae e la mistificazione delle testimonianze non eliminabili, da parte dell’intellighenzia dello Stato Pontificio dopo l’acquisizione militare del Patrimonio di Pietro operata con le conquiste di Egidio Albornoz alla metà del XIV secolo. A partire da questa data inizia la produzione di apocrifi come la “donazione di Costantino” e quella di Liutprando, già note come falsi un secolo dopo. La ragion di stato, ovvero i motivi di opportunità politica che imposero allo Stato Pontificio la cancellazione di un passato in contrasto con la liceità del regno del Papa Re sulla “provincia picena”, oggi sono completamente e definitivamente tramontate, perciò, come per la terra che è stata piatta per diecimila anni, poi è stata finalmente accettata per rotonda, anche la storia della nostra regione dovrebbe essere “aggiornata”, magari principiando dalle cose semplici come rettificare il nome della “Porta Gemina”.

Medardo Arduino

1 settembre 2023

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