Basilicam quam capellam vocant: datazione della basilica di S. Maria a pié di Chienti

Print Friendly, PDF & Email

Ho già accennato alla vexata quaestio della storia della basilica di Santa Maria a pié di Chienti e ai continui attentati negazionisti della sua plurimillenaria storia. Ne scrissi un decennio fa, con l’intento di proporre una rivalutazione del monumento, dopo aver letto il saggio decisamente riduttivo del professor Avarucci e la “frettolosa” schedatura della professoressa Neri.

Al convegnone di Montecò non c’ero, però ho molti amici e uno di questi ha registrato l’audio dell’intervento della professoressa Gigliozzi, storica dell’arte che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto porre la pietra tombale sulle “fantasticherie” di un dilettante che pretenderebbe di vederci un monumento con tre millenni almeno di storia da raccontare. Qui ci sarebbe da fare un lungo discorso preliminare sull’annoso problema dei percorsi formativi di coloro che poi dovranno formare col loro sapere le nuove generazioni. Mi corre pertanto l’obbligo di minuziosamente obiettare alla minuziosa comunicazione della suddetta docente maceratese. Verba volant, e il testo negli atti che usciranno fra un anno sarà probabilmente differente, ma da quando Edison ha inventato il fonografo è viva la possibilità di ascoltare e riascoltare le parole registrate e farne una critica al pari di uno scritto su carta.

Dapprima le osservazioni di metodo e di lessico, poi quelle più propriamente sui contenuti. Nella descrizione iniziale il monumento è trattato come un insieme sincronico di strutture, è un passaggio necessario se lo si vuol presentare a un visitatore che dalle descrizioni lo “vede” per la prima volta. Le architetture, purtroppo, hanno una terminologia diciamo “tecnica” con precisi significati, che dovrebbero permanere anche nel linguaggio dei critici d’arte, se ne parlano, così li possiamo capire. Con un uso preciso di termini, a esempio non si dovrebbe dire “travature” per indicare una capriata, che è sì fatta di travi , ma ha un preciso schema statico, antichissimo, ma che con le particolarità di quelle di Santa Maria inizia in un preciso momento storico del quale è testimone anche la serie di “catene” in acciaio che accompagnano le capriate. La copertura a capriate che fa sembrare l’edificio come un’originale chiesa a tre navate, appartiene ad un tempo molto vicino a noi, e questo dovrebbe essere detto almeno una volta, per non confondere le idee al non addetto ai lavori quando si parlerà delle supposte origini.

A parte confondere colonne (di sezione cilindrica) con pilastri (di sezione rettangolare o quadrata) se si parla di “matroneo” si entra in una questione delicata quanto importante sul significato e sulle epoche in cui fu usato questo termine e la relativa architettura. Secondo i più noti critici, il “matroneo” è una struttura che ritroviamo nelle chiese paleocristiane vale a dire dei secoli fra il IV e il VI, schema compositivo che viene poi abbandonato negli edifici Cristiani e permane nelle sinagoghe. Pertanto se questo di Santa Maria non è, o non è stato, un edificio paleocristiano (parrebbe di no dall’esposizione) lo sviluppo del piano superiore non può essere semplicisticamente quanto impropriamente definito tale. Non ci sono altre chiese in cui ci sia una separazione verticale dei sessi qui nelle Marche e neppure altrove. Non mi risulta che gli abati farfensi avessero simili dispositivi nei loro cenobi e chiese, perciò, non essendo una pratica diffusa quella del “matroneo” non è la destinazione d’uso del piano superiore, anche se è la prima cosa che si vede sui libri.

Tra l’altro un livello superiore con orizzontamento voltato è un costo notevole, e il critico lo deve saper analizzare in concreto: edificare non era un capriccio ma un fatto costoso quanto razionale, questo livello era perciò una realizzazione sostanziale, ma… perché? Nel X secolo non esistevano ancora i disegni tecnici perciò è un volo pindarico immaginare, come ho sentito, una squadra di magistri murium che vola a Cluny dove fa un corso di specializzazione nel costruire cappelle radiali per poi farle in Val di Chienti. A Cluny tra l’altro non avrebbero trovato che bei disegni di ricostruzioni congetturali, perché della onirica abbazia pare non ci sia proprio null’altro che disegni su carta recentissimi. Santa Maria invece esiste eccome! Fra l’altro un competente avrebbe anche notato che solo una delle cappelle radiali è originale e, potendo avere i permessi e i soldi dal Comune o dall’Università avrebbe fatto un paio di termoluminescenze per avere qualche data certa.

Torniamo al “matroneo”  che non è tale e semmai potrebbe chiamarsi “deambulatorio” ed avere una sua ragion d’essere, troppo lunga da spiegare ora. In conclusione la sincronia temporale della descrizione strutturale non fornisce alcuna visione né del contesto plani volumetrico né della sua genesi. Si sente più volte nominare un “transetto”, elemento compositivo delle chiese tardo medievali e rinascimentali. Il transetto è l’elemento caratteristico delle chiese con planimetria a croce latina, di questo elemento non ci sono tracce nella composizione di Santa Maria. Capisco il problema di far combaciare le planimetrie e gli alzati della Basilica con gli schemi delle chiese che compaiono sui testi di storia dell’arte con a fianco una bella data che aiuta, ma la nostra è una incredibile eccezione che non combacia con null’altro che con se stessa, non bastano analogie in pianta viste sui libri come si è usi fare nelle pagine di storia dell’arte, un edificio è un fatto squisitamente tridimensionale, come non si può dire che una donna ed un uomo sono la stessa cosa perché le impronte dei piedi si somigliano, così non si può paragonare Santa Maria a Sant’Antimo, solo perché sono delle chiese e pertanto sono state concepite per la stessa destinazione d’uso, ma hanno percorsi edilizi totalmente diversi. Certamente un poco si somigliano, come si somigliano fra loro tutte le ruote, che per essere tali devono per forza essere rotonde.

La planimetria non è sufficiente a “gemellare” le storie di due edifici che da due differenti e lontani passati sono giunti a noi perché la loro funzione si è mantenuta la stessa nel tempo e a questa funzione si sono adeguate (in modi tecnici totalmente differenti) le planivolumetrie. I materiali sono molto, molto differenti e altrettanto le tecniche edilizie, particolarmente raffinate in Santa Maria (non si direbbe ma è così) per la grandissima difficoltà ad usare efficientemente materiali di recupero eterogenei come chiunque vada in chiesa potrà constatare.

Se lo scopo dell’esame della Basilica era quello di dimostrare che non è quello che in realtà è stata, ma è un’anonima realizzazione farfense, capisco che si debbano voler vedere solo aspetti attinenti a questa situazione cercandoli nelle piccole iscrizioni e non badare ad altro. C’è sì un documento del X secolo, l’unico che rimbomba nei saggi, ma che dice solo che la chiesa a quella data esisteva, aveva un valore immobiliare e nulla più. Oggi, nel 2024, dovrebbe essere superato il metodo ottocentesco di datare un edificio dal primo documento che lo cita, ben sapendo che nelle Marche il negazionismo ha distrutto tutti i documenti dal V al X secolo, perciò niente, con questo metodo può esser nato prima. Se si pretende di chiamare scienza la ricerca storica essa dovrebbe per questo appoggiarsi su verifiche pertinenti i campi della scienza fisica, ma a quanto mi risulta nessuno prima o dopo di me ha fatto eseguire prospezioni non invasive nel sottosuolo della chiesa.

Io le ho fatte fare e pagate di tasca mia, per la mia dannata curiosità di capire. Quelle descritte dalla professoressa Stortoni hanno interessato l’esterno dell’edificio, fatte al di fuori forse per timore di trovare sotto all’attuale chiesa le memorie fisiche di un passato come già detto plurimillenario. Nella comunicazione dell’archeologa si accenna a un “sito pluristratificato”, fatto ovvio come l’acqua calda se siamo in un territorio che vanta un’antropizzazione fin dal paleolitico. Le testimonianze di un passato classico sono importanti per la regione, ma non investono direttamente l’edificio. Non ho voluto pubblicare la relazione dei geologi (prospezioni autorizzate dal Sindaco) con le interessantissime visioni georadar del sottosuolo, perché non credo che possano interessare a chi vuole vederci solo una chiesa farfense e non ha fatto nulla in questa direzione.

Se l’eccezionale verità descritta dal georadar, quella che non raccontano i documenti, ma la urlano le pietre, deve restare nascosta perché urta l’amor proprio di qualcuno non si sa perché, questo sia, la tengo per me. Quando sono rese in pubblico le tesi le si può giudicare, ognuno col proprio metro, io ho i miei convincimenti sui fatti architettonici e li espongo a chi vuole dibatterne seriamente. Le battutacce di spirito di rapa e i neologismi con desinenza -ology li lascio ai battibecchi da bar di chi non ha altri argomenti. Quando vidi per la prima volta Santa Maria, piantata su una collinetta artificiale, mi chiesi quale fosse stata la vera ragione, per forza importante, per fare una chiesa nel centro di una vallata alluvionale e a due passi dal fiume, il posto ideale per le esondazioni. La “collinetta” che noi architetti chiamiamo “motta” (che è un manufatto umano di terra ammucchiata che madre natura non fa nel mezzo delle piane dei fiumi), era in uso fino al tardo antico e serviva proprio per minimizzare i rischi di alluvione degli edifici, come, ma siamo nel Medio evo, fare una chiesa a due piani per permettere al Chienti di venirci a pregare al piano terra, ma non dove pregavano i fedeli, senza perciò fare troppi danni agli arredi sacri del piano superiore.

Pur non essendo un letterato, mi sono anche letto la Carta Osimana 1151, che sarebbe il caso di riconsiderare, dopo aver cercato tutti i più piccoli graffiti sparsi qua e là sui muri. Mentre si cercavano le tracce più minute della presenza farfense un’occhiata distratta al grande pantocratore in mandorla del catino absidale avrebbe forse spinto l’esperta a considerare che l’abate farfense fondatore abbia addirittura fatto venire in valle nel X secolo una setta eretica di ariani, quei “monaci d’oriente” che Camillo Lilii scrisse erano già lì dal V secolo. Amen.

Medardo Arduino

19 aprile 2024

Sii il primo a dire che ti piace

Commenti

commenti