La lettera di Giacomo Leopardi al Sindaco di Macerata

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Egregio Direttore,

la sorprendente pubblicazione dell’articolo su Pitino spinge lo sconosciuto che l’ha scritto a spedirgliene un altro, non suo e di ben diverso spessoreSi tratta di una rarità: nientemeno che di una lettera postuma, cioè quasi attuale, di Giacomo Leopardi (con lui anche lo straordinario diventa normale!) e che Leopardi scrisse al sindaco di Macerata. Costui la cestinò all’insaputa di tutti, ma invano, perché qualcuno l’aveva già fotocopiata per “La rucola”: l’unica via in grado di far pervenire certe notizie alla cittadinanza. Chi gliela spedisce è stato coinvolto da un impiegato comunale che non vuole correre il rischio d’essere denunciato per violazione del dovere d’ufficio e furto di notizie riservate. Ed eccone il testo insieme con i suoi ossequi.

P. Betafonet

 

Rispettabilissimo, autorevole signore,

è certo (e, vivaddio, qualche certezza esiste!) che non sarò creduto e ne capisco bene le ragioni. Ma io nondimeno dico, egregio signor Sindaco, che vengo spesso a passeggiare nella sua città come fanno molti anche se non paesani. Ci vengo perché mi è ancora sempre bello assai il rivedere i luoghi e dolce il ricordarmi delle cose del mio passato giovanile. Nel rivolgermi a Lei, io per prima cosa a tutti i Marchegiani chiedo perdono per aver giudicato con troppo erronea e mala mente la provincia dove nacqui e la sua gente. Questa la dissi – e tutti i leopardisti fanno a gara nell’esagerare quel che dissi – vilissima plebe marchegiana perché incolta, quand’invece si tiene  per  vero  che  interamente  da  essa nacque proprio quel letterato, tra i maggiori d’Europa, che la disse tale. Si è detto, infatti, e si dice che, in questa presunta arretratezza, io vi nacqui recanatese, e che ne uscii prima cittadino del mondo e ora pure icona del terzo millannio. Ma se la cosa sta così, allora domando e mi domando: può esser mai vera tutta quella arretratezza, se ha prodotto questo risultato? Lo ricordo, come se a Macerata lo faccessi ora, quel mio primo passeggiare fuor di Recanati e col Giordani. Allora, con meno assai di case e grandi fabbricati, da lì si poteva vedere a giro tutto il panorama: dalla marina e i colli alle montagne. Allora, in quella prima volta, non ero, certo, impedito né distratto e nemmeno un poco rattristato dai pensieri che mi vengono ora nel sostare al monumento dinanzi alla greve cancellata che ha sostituito l’ingresso medioevale; o mentre rileggo prima le lapidarie dediche al Bonaparte e al Murat sul fronte di Palazzo Torri; e poi quelle, ai lati del portone d’ingresso all’ostello di palazzo Cioci, per i nostri primi carbonari e quel Giuseppe che lì finalmente “stette”. Quando, venendo dal viale Leopardi (e ringrazio per la dedica), rifaccio quel tragitto, prima di arrivare sulla Piazza Maggiore e “stare” un poco anch’io riposato nella loggetta del mercato, rammaricandomi solo di non potervi consumare neanche un sorbetto, cammin facendo mormoro come dicendo al signor sindaco: “Ce ne sont point là les héros!”. Perché non considero affatto eroe nessuno dei signori laudati in quelle lapidi, benché uno di loro sia tale anche per Victor Hugo (è sua la frase francese). Infatti, al secondo giro che vi venni a fare, successe che, mentre mi erano noti, purtroppo, quei due “ribaldi” di palazzo Torri e quei cospiratori (i cui eredi mi avrebbero in seguito voluto loro deputato) mi era invece ancora del tutto sconosciuto quel Garibaldi del monumento e che “stette” in quel palazzo Cioci. La lapide di lui diceva quel che dice ancora oggi. Ma allora, come anche adesso, il cognome suo mi riportava la mente a quei due gloriati “ribaldi” di prima. Per cui: “Non ci sarà mica – mi dicevo – un qualche errore nel cognome di questo famoso sconosciuto?. E quell’enfatico “stette” mi faceva sorgere l’altra domanda: “Ma che “stette” a fare, il duce immortale, in quel palazzo Cioci?”. Mi rialzai deciso a sapere chi fosse e che vi avesse fatto. E m’avviai per questo alla biblioteca comunale, dov’ero già stato col Giordani. Una breve e facile ricerca  mi  diede  subito  la  duplice  risposta.  La  prima: quel Giuseppe Garibaldi era, in effetti, uno con la sillaba iniziale di troppo nel cognome: un ribaldo pure lui, ma molto più vero assai degli altri due. In effetti più che gran guerrafondaio e criminale come quelli, era un subalterno e fuggiasco guerrigliero: seguiva per lo più gli eserciti in combattimento, or qui or là, con una raccogliticcia truppa di “ribaldini”, che l’avevano liberamente come duce, ricavandone la libertà d’arraffare cose e animali, insidiare le ragazze e far bottino al posto della paga. La seconda: nel palazzo Cioci quel “duce” vi “stette” a fare un paio di cosucce al pari bisognevoli e indubitabili. Di una delle quali dirò dopo, e l’altra fu di preparare il primo broglio elettorale del cosiddetto Risorgimento italiano: una mezzaroba rispetto a quelli tutto meno che “plebiscitari” del Cavour, ma pure di tutti i futuri colonnelli organizzatori di elezioni libere, rappresentative e democratiche d’ogni tempo e paese. Che mi propongo io, signor Sindaco, col seguitare questa lettera per lei? Non d’infamare il Garibaldi, perché non si diffama, se si dice il vero; ma di far vedere quant’è falsa quella lapide, che per questo si dovrebbe lapidare, come fare si dovrebbe pure e più con quelle di palazzo Torri.

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Lei, forse sorpreso, dirà che, a lapidare questa e quelle, sarebbe come prendere a sassate la storia cittadina. Ma non è così: una storia che sia falsa, non è storia. E siccome quella di questa lapide non è del tutto irrilevante per nessuno, tanto meno per lei, perché sapere e dire il vero importa ancora a tutti più assai che dire il falso, la prego di sopportare, se può, tutta la rapidità di una lunga nota. Qualora, avendogli dato modo – spero – di rileggerla, per l’enfasi fino al tronfio che sempre è sinonimo di falsità, anche a Lei venga in dubbio l’attendibilità di questa lapide, opera quasi certamente dell’avv. Raffaele Foglietti, può rassicurarsi servendosi proprio di quello che lo stesso avvocato lasciò scritto e pubblicato cinque anni dopo, cioè del suo opuscolo intitolato Garibaldi in Macerata.  Vedrà che il Foglietti sapeva quello ch’era successo, ma sulla lapide non scrisse ciò che sapeva (cosa che fanno di mestiere non solo gli avvocati, ma spesso e peggio anche gli storici). Se la storia del Risorgimento fosse tutta scritta e vera come e quanto questa lapide, allora anche lei, signor sindaco, parlando come un certo Bartali, direbbe: essa l’è tutta da rifare! Mi limito a provarlo solo con alcune osservazioni facili facili, che si possono fare sulla base di evidenze immediate e fatti ben documentai. Prima osservazione, la più ovvia.  L’epigrafe dice: Qui Giuseppe Garibaldi formò la prode legione. Tutti sappiamo che non è vero. Garibaldi nel suo dover andare contro voglia verso il porto di Fermo (dove l’avevano spedito i capi del Governo della Giunta di Stato per non avere tra i piedi quel ricercato piantagrane dalla faccia leonina e stupida, come lo diceva il Mazzini) viaggiava da Foligno con la Legione già bell’e fatta. A Macerata (e a spese di sarti che invano reclamarono d’essere pagati) s’incominciò soltanto a dare una divisa a quella truppa, perché sembrava “una banda di selvaggi o pellirosse”. La lapide fa credere pure che a battersi a Roma il 30 aprile fu una Legione Garibaldi formata tutta da Maceratesi. Non è vero, signor sindaco. Eppure essa resta lì dov’è e viene ogni tanto restaurata come tant’ altre cose false sul nostro Risorgimento. La seconda, più rilevante. L’epigrafe dice che Garibaldi fu eletto dai Maceratesi loro deputato alla Costituente. Non è vero nemmeno questo: non fu così. Quando il Garibaldi, il 19 dicembre del 1848, fece sosta a Macerata, insieme con lui arrivò anche questa notizia, buona per lui e per il Circolo Popolare (cioè dei rivoluzionari) della città: la Giunta del governo di Roma aveva indette per il 21 gennaio 1849 le elezioni dei deputati alla Costituente. Questa notizia fu ritenuto che poteva dare a Garibaldi la possibilità di non essere più preso per il naso dalla mazzineria, cioè di non dover più proseguire per il porto di Fermo (onde guarnire – come scrisse lui stesso – quel punto che nessuno minacciava), di fermarsi a Macerata, di farsi eleggere “deputato” e quindi procurarsi il “diritto-dovere” di ritornare a Roma anche contro il volere della Giunta del governo, dove c’era, allora, pure il mio amico Muzzarelli. Ai soci del Circolo Popolare (un’infima minoranza e gli unici a volere fermamente quelle elezioni) la notizia dava la possibilità di utilizzare la presenza di Garibaldi con la sua Legione per imporre con “forza” quel modo e quello scopo di votare assai osteggiati dalla stragrande maggioranza, e per impedire ogni forma di resistenza o reazione. Asserisce il Foglietti:  “tutto faceva temere”  quello  che  avvenne:  “una reazione a favore del pontefice” e la repressione. Garibaldi spedì a Roma, per una “impossibile” approvazione del suo “stare”, una staffetta, che disse e fece pensare sostanzialmente il falso: che la sosta era richiesta dalla volontà popolare e necessaria a mantenere l’ordine pubblico (turbato, naturalmente, dalla reazione clericale) fino allo svolgimento delle elezioni. Ma tutti sapevano che il disordine in città era provocato dalla presenza della Compagnia Garibaldi; compagnia sovvertitrice – pure secondo il Governo di Roma – di ogni ordine e fede (e prototipo delle suc-cessive infiltrazioni organizzate dai piemontesi per suscitare nello Stato Pontificio quei moti popolari sempre attesi, ma che non scoppiavano mai perché il popolo, fruendo per lo più un riposato vivere civile pur mancando sovente di molte cose, non vi era affatto infelice più che in altri Stati). Così Garibaldi stette contro le disposizioni ricevute e le promesse fatte al suo Governo; e il Circolo organizzò le elezioni, non di uno (come si pensa), ma di 16 deputati. L’eroe, dando a sé e ai garibaldesi della truppa, contro il bando elettorale perché stranieri o non residenti, il diritto di votare “come da ordini superiori”, fece inserire il suo nome e predisporre le schede “perché i suoi militi fossero chiamati al voto”. Così, alle 11 a. m. del 21 gennaio 1849, alla testa del suo “battaglione” si recò al palazzo del Municipio; e dette, compagnia per compagnia, le schede già predisposte dal Circolo nel palazzo Cioci. Lo spoglio di questa precoce votazione risorgimentale – prototipo, va ribadito, di tutte le successive farse dei “plebisciti” cavouriani e non – diede questo risultato: Garibaldi né il primo né il solo dei 16 eletti, ma quattordicesimo. Ergo: da chi fu eletto e di chi fu il deputato? Non dei maceratesi. La reazione ci fu al grido viva Pio IX e morte al Garibaldi e ai suoi legionari. Ci fu pure la repressione, ma non dovette essere gran che. Quel presunto deputato dei Maceratesi fu costretto a sloggiare il giorno dopo lo spoglio per ordine del Ministero dal Presidente della provincia, avv. Dionisio Zannini, che vi riuscì dopo infinite discussioni e molteplici incidenti. Non posso fare altre osservazioni all’epigrafe, cioè riferirne ulteriori inesattezze o eventuali altre falsità, perché la mia indagine fu troppo limitata. E perché l’essenziale che volevo dire è stato detto, non desidero fare altre riflessioni per non annoiare ancor di più nessuno. Ri-levo solo che quasi tutta la monumentaglia pro Garibaldi sparsa per l’Italia aveva e ha il nobile scopo di coprire alcune verità su di lui, verità sempre taciute dagli storici. La prima delle quali riguarda la popolarità solo presunta del Nizzardo, e ci ricorda che il popolo, quando anche per la prima volta (nel 1948) ha votato per davvero a suffragio universale, sull’esempio dei Maceratesi di allora non votò o non fece vincere mai Garibaldi (che, da straniero e apolide, rappresentava sempre l’avvento dello straniero).  L’altra, molto più interessante, riguarda il Garibaldi come difensore del labaro dell’italica libertà. Che Garibaldi fosse un “liberatore”, oggi è assolutamente contestato e contestabile: con la unificazione “manu militari” piemontese e contro l’identità cattolica dell’Italia, il principio di autorità oligarchico e lo stato generale di “polizia” o sbirraglia, di dipendenza, di sopraffazione e maltrattamento degli umili e dei poveri, anziché diminuire, aumentarono di assai. Come del Murat si dice che combatté per l’indipendenza e la liberazione del Piceno e dell’Italia, così anche del Garibaldi si insegna che si diede gran da fare per tutto il Sud e il Centro dell’Italia. Invece il Centro-Sud non fu “liberato” dal “giogo borbonico e papale”, ma “colonizzato” da un piemontismo cieco e violento. E va fischiato e non pagato un “docente”, se non dice che la re-pressione dell’insorgenza (la cosiddetta guerra al brigantaggio) – iniziata da Garibaldi a Bronte, da altri garibaldesi proseguita e da lui mai condannata – fu nel Centro-Sud d’Italia ovunque predatoria e criminale come (se non quanto) quella giacobina in Vandea. Dimenticando di essere uno dei protagonisti, Garibaldi scrisse: Quando i posteri esamineranno gli atti … durante il risorgimento, vi troveranno cose da cloaca. Basterebbe solo un’altra lapide, posta anch’essa in quel palazzo Cioci e che ricordi il proclama e l’operato del Pinelli, per dire come fu condotto il risorgimento liberatorio nel Piceno. Un’altra verità, quella d’un Garibaldi nuovo Cincinnato, è storiella che non vale la pena negare ai fanciulli. Ma di questo parlerò e d’altro, se si darà l’occasione e l’interesse di doverlo fare. Io comunque lancio, a Lei, signor Sindaco, e alla sua cittadinanza, quest’appello: Se qualcuno sa di Garibaldi qualcosa di certo che smentisce quello che ho scritto su di lui, per favore, mi scriva. Fin qui non si è detto male (il falso) – credo – di Garibaldi. Perché oggi si può dire, con le parole del Cavour, quello che fu: “… ’na ciula venerata” dalle Logge inglesi. Non siamo più ai tempi del “Tecoppa”: quel tizio che, alle ripetute richieste che gli faceva in pubblico un creditore, per “tacitarlo” gli gridava: “Guai a te, se ti permetti ancora di parlarmi male del Garibaldi!” Sono giunto, finalmente, signor Sindaco, alla conclusione. Una conclusione anche da me riprovata perché in stile “garibaldiano”. È vero: Garibaldi stette in quel palazzo Cioci; ma vi stette a fare due cose che gli storici di parte non diranno mai. Di una ho detto e portato prove. Dell’altra non occorre documento alcuno per dire che ce l’abbia fatta. Perché, se per Garibaldi Pio IX era solo un metro cubo di letame, anche Garibaldi – per quanto moderno e ripulito lo si faccia apparire – aveva la sua brava dose di cacca da smaltire: l’unica cosa di sé che non smerciò – pare – come reliquia, e che a Macerata nemmeno lui faceva per la strada. Non sarò creduto, ma dico ugualmente: ho scritto questa mia non per dispiacere alla S.V., ma per amore del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e deformazioni di esso. Che questa lettera serva ad indurre almeno qualcuno a chiedere o a domandarsi di che fede è degna la storia secondo le lapidi della propria città. I saluti e gli omaggi, che invio, non so se e quanto saranno graditi, ma li sento, per meritevole deferenza verso di Lei, doverosi e li dico sinceri io molto più di prima orgoglioso d’esser marchegiano e maceratese.

firma Giascomo Leopardi

 

 

 

 

Oltre-Piedigrotta, il 10 novembre d’un anno fa.

 

Giuseppe Garibaldi
Giuseppe Garibaldi

 

 

Camillo Benso Conte di Cavour
Camillo Benso Conte di Cavour

 

 

Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini

 

 

 

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