Serate danzanti maceratesi tra 45 giri e complessini

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In un tempo non troppo remoto non esistevano discoteche, pianobar, né adunate oceaniche per ascoltare questo o quel divo della canzone. Esistevano i night club, per chi poteva permetterseli, con un pianista o un piccolo complesso strumentale a eseguire in sottofondo i motivi più in voga; c’erano le balere più proletarie, quando non si faceva ricorso al jukebox a gettoni.

 

Il ballo in casa

Nelle ipotesi più economiche e accessibili c’erano le case private, le riunioni fra le combriccole di amici, nei pomeriggi del sabato o delle feste “ricordate”. Le mamme premurose restavano in casa a preparare per tempo ciambelloni, crostate, tartine e rinfreschi, mantenendo in frigo le bibite (spuma, chinotto, coca-cola…). A festa iniziata, controllavano dall’uscio del cucinino l’accoglienza a tali preparativi mangerecci e soprattutto il comportamento delle varie compagnie di ballo.

 

Lo strégne

Raramente abbandonavano il campo (appartamento e figlie), alla mercé degli amici conosciuti o altri occasionali, baldi giovani che esultavano e toccavano il cielo con un dito, quando, nello sviluppo delle strategie, riuscivano a “strégne”, a stringere la dama un po’ più del con sentito. Questo dello “strégne” era il metro (o, per meglio dire, il centimetro) di valutazione per saggiare il grado di serietà e disponibilità della prescelta.

 

Il giradischi

Sullo sgabello accanto alla finestra era sistemato il giradischi con altoparlante incorporato e le coppie si muovevano lente nello spazio canonico della “mattonella” o si… scatenavano nei ritmi della raspa, del cha-cha-cha e, più tardi, del twist. Era difficile esibirsi nei movimenti scomposti del rock’n roll per la modesta cubatura degli ambienti. Uno del gruppo, di solito il più timido, occhialuto e brufoloso, era ad detto alle manovre del cambio dei dischi di vinile, ben presto sostituiti dai più pratici 45 giri.

 

Tapparelle giù

Nei momenti di maggiore intimità, quando i ritmi si facevano più blandi, e le coppie  dondolavano con la complicità dei “lenti”,  si abbassavano le tapparelle delle finestre se il festino si svolgeva nel pomeriggio. Oppure, nei rari dopocena, le luci venivano adeguatamente ovattate e attenuate. L’unica fonte era l’alone rosato della spia del giradischi, che illuminando a malapena la zona del “manovratore” brufoloso consentiva ai ballerini qualche avance più ardita. Un bacio era il non plus ultra delle audacie…

 

Pomeriggi alla Casa dello Studente con l’Hot Club

Nell’ambito delle manifestazioni universitarie, restano memorabili i pomeriggi danzanti alla Casa dello Studente, dove spesso suonava l’Hot Club, il mitico complesso stracittadino composto da cinque giovani elementi: Pietroni, leader del gruppo e pluristrumentista, Mancini (lu fiju de la maéstra de la scolétta de li Giardì’), Grasselli, Petroselli (detto Vivì) e Giovà Spalletti: quest’ultimo più noto come Lifantino, per i caratteri somatici del viso e la particolare conformazione dei padiglioni auricolari. Successivamente, a posto del Mancini, subentrò Giusti, studente universitario originario di Moresco, ribattezzato lu camì”, per la folta chioma crespa e ricciuta, che richiamava la fumata di una ciminiera.

 

Il quintetto da Corrado

Il quintetto ebbe un periodo di grande notorietà, per aver partecipato negli anni ‘60 alla trasmissione radiofonica “Rosso e Nero”, condotta da Corrado Mantoni. Aveva grande seguito tra i giovani  non soltanto per il genere musicale prescelto, molto vicino al jazz melodico, ma per lo spirito parodistico che stravolgeva i testi originali delle canzoni; o anche per le frecciatine che i cinque si rimpallavano, a voce alta, durante l’esecuzione dei brani.

 

I soprannomi

Così Giovà Spalletti, talento autodidatta e ironico osservatore di fatti e persone, aveva coniato soprannomi e inventato parodie al limite dello sboccato. Di rimando i colleghi lo avevano definito “gamba rotta fraudolenta” a causa di un lieve difetto che lo costringeva a zoppicare. Un universitario, sedicente poeta, nel corso di una serata, volle assolutamente recitare al microfono alcuni suoi versi e chiese a Spalletti se, per cortesia, poteva eseguire al pianoforte un “morbido sottofondo”. Al che il pianista, in pura cadenza dialettale, rispose: “Ammò te ce farò pure li soprattacchi!” Chi, in certo qual modo, mitigava le intemperanze dei cinque “discoli” dell’Hot Club, era Aurelio Spalvieri, professore di tromba che, suonando sporadicamente con loro, cercava di trovare un equilibrio tra l’inventiva di ciascuno e le indubbie capacità dell’insieme.

 

Le battute di Spalletti

Spalletti, a esempio, non conosceva una nota e, nell’affrontare la tastiera del pianoforte (o del vibrafono) si affidava completamente a una estrema innata musicalità e alla versatilità del suo estro creativo. Era un insegnante di educazione fisica e, se capitava l’occasione, non risparmiava con le sue battute nemmeno i colleghi di lavoro. Uno dei bersagli preferiti era un certo Salciccia (sic!), per il quale nutriva una istintiva antipatia. Così se ne usciva d’improvviso con la frase: “Non me toccà lu registru, che me lo ògni tutto…” oppure assaliva il malcapitato dicendo: “Non se sa mai come la penzi, perché non se capisce se sì de fètico o de carne…”. O: “Sai Sargì, ieri me sò ‘ncontratu co’ tu’ zia: la signora Lonza…” e via di questo passo.

 

Le serate alla Società Filarmonica

Di impronta più mondana erano le serate alla “Società Filarmonica” o quelle del periodo del Carnevale nelle sale del Palazzo del Mutilato, dove si esibiva di solito l’orchestra del maestro Aloisi, un complesso più tradizionale e stilisti camente perfetto; o l’altra più scanzonata e immediata, agli ordini di Alvaro De Angelis, “The Original Quintet”. Ricordo di quest’ultima i virtuosismi del fisarmonicista, noto come Peppe de Filò, che si propone ancor oggi nelle sagre paesane. E un suonatore di contrabbasso che, per certe sue invenzioni sonore, veniva chiamato “Lu tacchiu”: a significare che si sentiva più il legno della cassa che non il colpo di corda.

 

Alvaro De Angelis

Alvaro, il  leader del complesso, aveva intuito la vera funzione dell’orchestra, non più asettica e mera esecutrice dei brani, ma protagonista essa stessa delle serate  con il coinvolgimento diretto dei ballerini. Era solito storpiare e adattare all’idioma locale i nomi dei cantanti d’oltreoceano più in voga e così Neil Sedaka, diventava Neil Sidìa (…justo per non parlà’ sempre lu dialetto – chiariva). Ovvero pronunciando con esatto accento inglese il nome di Paul Anka (quello di Diana, per intendersi), alludeva ai gustosi piatti tutti marchigiani, come la “polanca” in umido o arrosto con contorno di patate. Altro divo americano della canzone era Pat Boone, che, nella interpretazione del De Angelis,  diveniva “Pat il buono” ribattezzando una delle sue canzoni più note (April love) “Apri l’òve, facìmo la frittata”…Un cenno a parte, per onore di cronaca, merita il complesso del maestro Venanzetti, anch’egli virtuoso di tromba e animatore di tante feste mondane o goliardiche.

Goffredo Giachini

24 agosto 2018

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