Una volta, al tempo della semina, c’era un connubio fortissimo tra buoi e contadino

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Girando per le strade di campagna nel mese di novembre si vedono, un po’ ovunque, i contadini che seminano il grano. Storicamente il lavoro nei campi per la semina del frumento iniziava, secondo la tradizione, verso la fine di ottobre con l’aratura dei campi. L’attrezzo usato era uno dei più antichi che si conosca: l’aratro. Il tipo interamente in legno venne sostituito alla fine del 1800 con quello dalla punta in ferro. Protagonisti di questi giorni di intensa fatica, fino a non molti anni fa, erano i buoi e il contadino.

“T’amo, o pio bove / e mite un sentimento / di vigore e di pace al cor m’infondi, / o che solenne come un monumento / tu guardi i campi liberi e fecondi / o che al giogo inchinandoti contento / l’agil opra de l’uom grave secondi”.

Le mucche aggiogate, con ritmo lento ma continuo, tiravano l’aratro che addentava la terra, aprendo e ricoprendo il solco. Le bestie venivano addestrate gradualmente a questo tipo di lavoro e sostituite dopo un decennio circa. Attorno al 1920 comparvero le prime trattrici Fiat, Landini, Orsi, Cassani e altre, ma l’aratro di legno tirato dai buoi si è visto al lavoro, in qualche campo del nostro territorio, anche negli anni cinquanta. Un tempo l’aratro veniva trainato da diverse coppie di buoi guidati da un contadino che per la giovanissima età o per la vecchiaia non poteva fare lo sforzo di gestire l’aratro. Il vecchio o il ragazzo con incitamenti prolungati incoraggiava e stimolava i buoi al tiro. I bovini destinati al lavoro venivano appaiati e allenati a lu jù (il giogo), erano posizionati sempre dallo stesso lato: al posto di destra o di sinistra. E in quella posizione erano mantenuti sempre, prendendo il nome: “Va-là biò, va-là bunì” (a queste due posizioni in ogni zona si davano due nomi tipici ma diversi da zona a zona).

Tradizionalmente a tutti gli animali nella stalla erano attribuiti dei nomi che si ripetevano di generazione in generazione. Il contadino che reggeva e guidava l’aratro era sottoposto a un lavoro difficile e molto faticoso. Era solitamente l’uomo più robusto e resistente della famiglia. Dopo la lunga giornata e il duro lavoro, come il contadino, l’animale era stanco morto ed entrambi si guardavano; si scopriva che gli occhi, sia dell’uno che dell’altro, erano lacrimosi sui volti stanchi e segnati. Gli occhi dei buoi, dopo la lunga giornata lavorativa, erano così espressivi che facevano tenerezza e pena. I buoi a volte, durante il lavoro, per essere incitati al tiro subivano dei colpi inferti con una verga costituita da un nervo essiccato. Colpi sicuramente non meritati.

Solitamente, però, il rapporto tra l’uomo e l’animale era sempre molto buono, in simbiosi si direbbe, bastava un lieve cenno alle corde (briglie), oppure una voce che pronunciasse qualche parola in codice come “léé” per fermarsi, “biò”, “al là”, “faurì” o “galantì” per trovare una intesa e capire ciò che il contadino desiderava: invertire la marcia, tenere una certa direzione, seguire il solco, fermarsi o ripartire. Il contadino camminava dentro il solco appena aperto e guidava l’aratro stringendo i lunghi manici con le mani, alzando e spostando l’attrezzo a seconda degli ostacoli che incontrava.

Questo lavoro faticoso, fatto del sudore dell’uomo e delle bestie, iniziava la mattina presto col buio e continuava fino a sera. Ogni tanto una sosta permetteva a tutti di riposarsi. Le bestie generalmente non potevano essere utilizzate a caso e ognuna aveva la sua “mano”: c’era quella a mandritta, che era abituata a stare a destra, e quella mancina che stava a sinistra, così che il lavoro procedesse spedito e regolare senza troppi richiami da parte del conduttore.

La semina del grano si effettuava in ottobre, non più a spaglio come si faceva fino alla prima guerra mondiale, ma con la seminatrice, una macchina con un cassetto per la semente, di forma triangolare, due ruote, un timone e sei vanghetti, o più, con fasce tubolari a molla che interravano il grano in modo uniforme e in solchi paralleli (le marche correnti erano la Esperia, la Vittoria e l’Ausonia). Le varietà di grano erano a stelo lungo per ottenere la preziosa paglia indispensabile nella stalla. In certe colonìe si coltivava un grano speciale da cui si ricavava la paglia per fare i cappelli (Falerone – Montappone).

Il rischio del grano alto era che in caso di forti temporali e di vento poteva “allettarsi”, perciò fu sostituito con varietà a steli più corti. Ora, ai giorni nostri, la semina avviene un po’ più tardi, nel mese di novembre, con mezzi meccanici molto performanti e si è persa la poesia degli antichi, faticosi e sudati riti della semina, quando il grano veniva spaso col pugno socchiuso e con larghi e solenni gesti delle braccia. I bambini oggi non possono vedere più questi lavori che hanno tanto caratterizzato la vita dei loro nonni, dei bisnonni e la nostra gioventù.

Alberto Maria Marziali

21 febbraio 2022

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