C’era una volta a Macerata un gruppo che si chiamava… “Gli amici del dialetto”

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Me li ricordo quasi tutti gli amici liceali di mio fratello Sandro: Bellesi, Brinati, Corradini, Sbriccoli, Marchesini, Spanò, Lampa , Giachini… Ne parlava spesso e tutti erano protagonisti delle “matte imprese”, delle ragazzate che  facevano sussultare perfino l’imperturbabile Preside, il terribile professore Trepin. Dopo la maturità e l’università, ovviamente le loro vie cambiarono; ognuno intraprese un cammino diverso, in città diverse. Per mio fratello, appassionato di marketing, allora scienza nascente dell’economia, si aprirono con successo le porte di Milano dove si stabilì definitivamente.

E proprio dalla stessa città meneghina, tornava alla sua Macerata, anzi, alle sue “Casette”, Eriodante Domizioli aviatore, violinista, scrittore dialettale e poeta, realizzando, dopo aver lavorato anni presso la Direzione della Rinascente, il sogno di una meritata pensione ma soprattutto di ritornare,come desiderio struggente, nella sua città con gli amici di sempre. Si stabilì nel mio stesso rione (Santa Lucia), suscitando subito nel mio animo una grande stima nei suoi confronti. Era una persona vivace, colta, solare, pronta a condividere con vero entusiasmo le sue stesse passioni come la poesia, la musica e soprattutto la curiosità e l’interesse storico verso la città natia.

La scintilla che provocò il nostro incontro e l’inizio di una profonda amicizia, fu la pubblicazione de “Lu vrugnolò”, rivista letteraria prettamente maceratese, che con il suo detto “Scappa quanno che pò e dice quello che vò” conquistò subito i veri vrugnulù. Il giornale, infatti, “granne comme un lenzolu” ebbe subito successo, non solo per l’espressione tutta “casettara”, ma anche per gli articoli di cultura locale firmati da due stimati studiosi del dialetto: Flavio Parrino e Dante Cecchi. Non mancavano inoltre le ricerche storiche del grande Libero Paci che, lavorando nella nostra illustre biblioteca, sapeva “gni cosa de la città, anghe le chiacchjere”, e te le raccontava sorridendo con la sua simpatica ironia tutta maceratese.

Eriodante aveva in casa la redazione del giornale e oltre agli scritti, anche altri poeti dialettali e non, collaboravano con i loro sonetti come il bravo Giordano De Angelis,  poeta attento e sensibilissimo, l’indimenticabile Secondo  Francesconi da Castel Sant’Angelo, il caro maestro Nazzareno Sardellini, Mario Monachesi (che ancora oggi ci allieta con i suoi versi e con la ricerca dei proverbi maceratesi), l’elegante Rolando Sensini di Treia e tanti altri, come l’infaticabile Anna Zanconi dalla lontana Bergamo. A fianco di ogni poesia c’era inoltre l’indovinata e divertente caricatura dei poeti fatta dall’insuperabile matita di “Virgì” (Virgilio Bonifazi) e, per le delizie del palato, le golose ricette, in rima, di Ermete.

Quando Eriodante seppe che anch’io mi dilettavo a scrivere poesie, le volle leggere e subito m’invitò a far parte del piccolo gruppo che si stava formando e che si esibiva dove capitava, in genere nei teatrini parrocchiali o nelle feste paesane. Così ebbi la felice occasione di avvicinare scrittori che già leggevo e stimavo, di assaporare con loro la bellezza della poesia, specialmente quella dialettale alla quale mi stavo timidamente avvicinando.

Conobbi il dottor Giovanni Ciurciola, grande studioso e ricercatore, membro onorario dell’Accademia dei Catenati, chiamato poi dall’illustre professore Leonardo Mancino “il Petrarca del verso”. Goffredo Giachini, animatore culturale, poeta, scrittore e critico d’arte, anche lui facente parte della prestigiosa Accademia maceratese e soprattutto mio carissimo amico, scomparso recentemente (anche se il mio cuore ancora non lo vuole ammettere). Il giovane Mauro Valentini, che dotato anche di  una bella voce, pitturava con naturali espressioni dialettali la Macerata nascosta o dimenticata. Sì, era commovente trovarsi insieme a parlare coralmente di poesia, ma le occasioni d’incontro erano sempre rare e veloci mentre il desiderio di rivederci diventava ogni volta più grande. Ma quando? E soprattutto dove? Ma nella mia scuola, come non averci pensato prima!

In quel periodo, infatti, insegnavo nella materna “Don Bosco” e avevo come Direttore Didattico proprio il Professor Leonardo Mancino il quale, alla richiesta di un pomeriggio alla settimana tutto per noi, fu entusiasta. Non solo ma in seguito divenne parte centrale del nostro gruppo che stava mettendo radici molto profonde. Così, ogni venerdì alle diciassette in  punto, entravano nella mia scuola gli amici poeti più cari: Domizioli, De Angelis, Giachini, Sardellini  e l’ultimo arrivato dal borgo delle Fosse, il caro Urbano  Riganelli già noto per le sue artistiche sculture in legno. Erano visibilmente contenti di trovarsi in un asilo, nel mondo ancora incantato dalla innocenza dei bambini appena usciti. Li rivedo ancora oggi seduti come potevano sulle seggioline fra i piccoli banchi celesti. Anche questo era già poesia!

Contentissima della presenza, preparavo loro sempre una merenda con il tè, nel famoso “briccone rosso” che ancora oggi conservo con tanta nostalgia. Stare insieme era anche motivo di conoscersi meglio; ognuno diceva tranquillamente la sua o insegnava all’altro le regole del dialetto (ho ancora gli appunti che Eriodante mi portava e ricordo i preziosi consigli di Giordano). Ma il conversare, specialmente sulla poesia dialettale, e le conclusioni, non erano sempre condivise e serene, spesso si accendevano discussioni fortemente animate, le voci si alteravano, si alzavano, magari per un accento, per una parola che cambiava espressione da borgo a borgo nella stessa città, ma poi gli animi si calmavano.

Eravamo tutti amici, ci volevamo bene e ci stimavamo l’un l’altro. Goffredo, in genere, per primo ristabiliva la calma, persuadeva con la sua signorile saggezza e con la solita ultima barzelletta riportava a tutti il sorriso sulle labbra. Era solo un piccolo temporale d’estate ma poi tornava sempre il sole. Io vedevo tutti i poeti come tanti fiori, non uguali, ognuno con il suo colore, la sua fragranza e delicata sensibilità alla luce. Da soli non davamo il giusto profumo ma uniti nello stesso mazzo di fiori onoravamo la città con le emozioni di una vera voce.

Gli incontri ormai andavano avanti da più di un anno, sempre nella mia scuola e non solo con i soliti poeti ma anche a contatto con gli altri che ci onoravano con la loro presenza. Qualcuno forse ricorda Romano Jommi, detto “Romoletto”, che nel libro “Li Cincinelli” racconta con un dialetto tutto suo l’infanzia  dolce e cruda trascorsa tra gente umile e povere case del borgo. Le sue storielle, quasi un diario, sono piccoli quadri colorati di vita. Le sofferenze e le privazioni, erano abituali ma l’autore le descrive con ironia, come fossero uno scherzo, portando il lettore da un sorriso a una profonda commozione, come dire: “Sì, è vero, c’era povertà in Via dei Cincinelli ma la si combatteva, tutti uniti, con grande fierezza e dignità”.

Un altro visitatore, che poi divenne  parte del nostro gruppo (troppo poco per la sua improvvisa dipartita) era Lisà de Lurinzittu, il poeta-contadino, come lo definì lo storico Libero Paci nella presentazione del suo libro “Li recordi mia”. Nei suoi versi e nelle prose in dialetto s’infila “lu guazzarò” e canta la bellezza della terra, il suo profumo e gli affetti, non solo per i propri cari, specialmente per  la madre tanto amata, ma anche verso gli animali, grandi e piccoli, che fanno anch’essi parte della famiglia. A tratti le parole si stringono, si intrecciano, diventano forti, dure e formano come un  muro che si pone come ostacolo contro l’invadente modernizzazione, che strappa al cielo anche il volo spensierato delle rondini.

Così anche Toto de Fusà (Fusari),  poeta silenzioso, attento, ironico, che vive tra i ricordi della campagna idillica e una triste realtà, all’ombra della bella Chiesa delle Vergini. Le sue mini-poesie sono intime meditazioni che nascono come difesa non solo della propria sofferenza, ma anche di quella degli altri con una unica forza: la fede profonda. Con  il trascorrere del tempo e  i numerosi incontri, il gruppo divenne famoso non solo in città, dove aveva il suo affettuoso e fedele pubblico, ma anche in Provincia,per diversi motivi: il primo perché c’era ancora l’amore sentito verso il dialetto e la propria terra; il secondo per la straordinaria  figura del professor Mancino che ci affiancava con preziosi approfondimenti sulla poesia; il terzo per la regia, se così si può dire, del bravo Goffredo che con la sua spiccata versatilità  naturale sapeva subito conquistare, con successo, la simpatia del pubblico.

Ad aiutarci intervenivano non solo i suoi amici più cari come il professor Nazzareno Gaspari, il dottor Franco Brinati e altri, ma anche quelli provenienti dall’affermato Coro Sibilla e soprattutto dalla preziosa Accademia dei Catenati, vanto di Macerata, come il suo Direttore, la gentile Angiola Maria Napolioni. C’è un altro amico che voglio sottolineare, sempre presente con la sua famosa passione per il teatro e per la poesia: l’amato e indimenticabile Pierluigi Ferramondo, ricordato da tutti come “Luì de Montelupò”. Anche il dottor Ciurciola, il caro Giovanni, accompagnato sempre dalla inseparabile Annì, organizzò diverse serate; ricordo con viva commozione quella nella bella Sala Verde della nostra biblioteca con il Sindaco, l’ingegner Giorgio Meschini, il Prefetto dottor Giulio Marcellino e… i miei bambini dell’asilo.

Con queste storie alle spalle e incoraggiata dagli amici poeti, uscì il mio secondo libro dal titolo “A ciappellu de lu grifu”, con l’ambita presentazione del primo cittadino di Macerata, il professor Gian Mario Maulo. Ormai eravamo sulla cresta dell’onda, arricchiti di conoscenze ed esperienze meravigliose e, nello stesso tempo, fra convegni, incontri e cene, avevamo acquisito nuovi amici da tutte le parti. A Cingoli organizzai un incontro con il famoso maestro Nello Fabrizi. A Civitanova, spesso ci sentivamo con i poeti Sandro Di Bella e Franco Concetti. A Sarnano avevamo a disposizione il caro Egidio Mariotti che interveniva volentieri ai nostri incontri. A Potenza Picena il grande “Cisirino” aveva organizzato una serata tutta per noi e che dire del simpaticissimo Giovanni Pastocchi con le sue argute e divertenti poesie? Ricordo pure la commozione che provai durante un incontro a Montegranaro, in un angolo caratteristico della città, durante l’ascolto dei delicati versi del poeta Giuseppe Vesprini.

Proprio in questo periodo così intenso e ricco di interessi, uscirono i nostri tre libri. Infatti, anche se ciascuno di noi  aveva pubblicato personalmente, sentimmo il bisogno di farne uno tutti insieme, così come ci vedeva e ascoltava il  nostro pubblico. Il primo uscì nel 1991 con il titolo “Vola vola picció” e con la presentazione del dottor Franco Brinati. Sulla copertina, tutta  blu, erano disegnati dei piccioni che dall’alto di un palazzo indugiavano a spiccare il volo, più interessati a osservare la vita maceratese. La figurazione grafica era della nota e già stimata artista Marvì Tommassetti e le foto interne sulla città di suo marito, il non meno bravo Maurizio Costantini. Il secondo libro uscì nel 2003 con il titolo “Mestecanza” e con la presentazione del professor Evio Hermas Ercoli. Sulla copertina, dentro un cerchio, appariva con delicata e squisita eleganza, la chiesa di San Giovanni della nota pittrice maceratese Graziella Tognetti, mentre all’interno del libro, con pochi tratti essenziali, il nostro nuovo amico Fernando Pallocchini ci dava una rapida visione dei monumenti più noti della città. L’antologia era, naturalmente, dedicata agli amici scomparsi: Domizioli, Francesconi, Sardellini e Lisà de Lurinzittu. Il terzo, invece, dal titolo “Frecandò”, vide la luce nel 2006, questa volta con la presentazione dello stimato professor Nazzareno Gaspari che seguiva l’iter poetico del nostro gruppo. Sue sono anche le foto dei monumenti cittadini, commentate poi ironicamente con didascalie divertenti. La copertina era sempre della nostra maceratese Graziella Tognetti, la quale rappresentava con toni delicati l’antica Fonte Maggiore.

Dopo il successo delle pubblicazioni, come avviene anche nelle  favole più belle, l’incantesimo che ci teneva uniti cominciò a diminuire. Uno dei motivi fu il trasferimento del nostro professor Mancino. Non avendo più il suo appoggio culturale e artistico e, di conseguenza, anche un luogo per  riunirci (non l’avevo chiesto alla nuova Direttrice sapendo già la risposta che mi avrebbe dato). Seguitavamo comunque a incontrarci nel mio appartamento ma…: “Troppe scale!” Allora ci rifugiammo nel garage dove, tra i ricordi di famiglia appesi alle pareti, avevo allestito un nuovo salottino con tanto di bar e con il fedele “briccone rosso”.

Nonostante tutte le mie attenzioni e le premure delle mogli degli stessi poeti, il gruppo si stava dissolvendo, io stessa me lo sentivo sfuggire di mano e ripensavo spesso al caro Eriodante che, sicuramente, se fosse stato ancora presente, non l’avrebbe permesso. C’incontravamo di meno, avevamo tutti poco entusiasmo, sembravamo stanchi, come immersi in altri pensieri, forse più profondi. Così ci accolse come “orfanelli smarriti” il caro Fernando Pallocchini (anche lui spinto dalla fiamma della poesia), mettendoci a disposizione la sua bella “Rucola”, che stimola, ancora oggi, i piccioni del cornicione (immortalati dalla Tomassetti) a scrivere, a raccontare ai giovani, con un linguaggio semplice e schietto le esperienze, le emozioni di un vissuto non solo nostro ma anche quello dei nostri Padri; un grande patrimonio che, se pur fatto conoscere agli altri, fuori dalle mura, deve essere considerato sempre e solo nostro, conservato e difeso gelosamente.

Sua Santità Giovanni Paolo II in una conferenza delle Scienze Sociali, a  Roma, affermò lo stesso concetto contro il nascente pensiero unico, che in maniera invadente cercava già allora di modernizzare e globalizzare la cultura di una Nazione, a scapito dell’uomo e della sua natura. Ho sempre considerato che il merito del nostro piccolo gruppo non sia stato tanto quello di scrivere poesie ma di averlo fatto con un linguaggio intimo, naturale: il proprio dialetto. Parole a volte dure, aspre, sì ma anche buffe, che contengono nella loro radice la fatica contadina, la lotta dell’uomo contro la sofferenza, la povertà, con il conforto della famiglia, la gioia sincera e viva dell’amicizia e soprattutto l’incrollabile forza della speranza.

Ecco perché ho voluto raccontare questo periodo della mia vita, una parte sicuramente bella, indimenticabile, la piccola grande storia dei miei amici poeti che “La rucola” non ha mai dimenticato facendoli ancora vivere,  palpitare, nelle sue belle pagine. Ora i “miei piccioni” hanno quasi tutti preso il volo. Ultimo è stato il caro Goffredo. A lui e a tutti gli altri, dedico, con  profondo affetto, questo ricordo prima che anche io m’innalzi tra i “pistacoppi”, nel cielo di questa amata città.

Mariella Marsiglia

1 luglio 2022

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