Dai generali poco efficienti del Murat fino a Montolmo, possibile campo di battaglia

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Sfogliando il libro “La campagna d’Italia di Gioacchino Murat” del generale, patriota e storico Pietro Colletta, non possono sfuggire le pesanti accuse di malafede e vigliaccheria verso i generali napoletani nella battaglia che, è bene ricordarlo, è stata definita in più modi come “battaglia di  Tolentino”, “Cantagallo di Monte Milone” o “Monte Milone”. Niente di nuovo ben inteso, tutti testi ampiamente conosciuti ma a me fa sempre un certo effetto leggerli direttamente.

Il Colletta, generale comandante del Genio, assistette in prima persona nella camera del Re Murat nel Palazzo Torri di Macerata, alla concitata notte tra il 3 e 4 maggio 1815. Ricordiamo che gli alti ufficiali alla presenza del Re parlavano in francese. Narra di episodi che se veri sono davvero sconcertanti. Bisogna precisare che diverse opere del Colletta ricevettero forti critiche subito dopo la pubblicazione avvenuta postuma: il citato “La campagna d’Italia” edito nel 1847 e la ben più famosa “La storia del reame di Napoli” del 1834.

Muore nel 1831 a Firenze dopo una vita passata sui campi di battaglia, negli studi letterali e storici, nelle cospirazioni, in politica e nella Massoneria. Fu lui nel maggio 1815 insieme al generale Carrascosa a firmare il Trattato di Casalanza presso Capua, che restituì il Regno di Napoli ai Borboni dopo il decennio napoleonico: nel trattato si garantiva il debito pubblico, si sanciva lo scambio di prigionieri, un’amnistia generale e che la nobiltà insieme alle pensioni dei militari fosse mantenuta per chi avesse giurato fedeltà al Borbone. In fondo un cambio di regime molto tranquillo.

Torniamo agli episodi sconcertanti della narrazione del Colletta. Nella notte citata a Palazzo Torri, sul tardi si presentò un aiutante di campo del generale Aquino che in preda al panico affermava che il suo generale e il generale Medici erano scomparsi, catturati o uccisi e che la truppa restante si era dispersa. Quando Murat sbigottito chiese chiarimenti, improvvisamente arrivarono i redivivi Aquino e Medici. Aquino raccontò che mentre si ritirava da Tolentino nel buio della sera aveva perso la strada ed era finito nella zona occupata dagli austriaci e le sue truppe erano state annientate. La versione contrasta con quella riportata nel libro di Di Nicolantonio Bianco, “Gli ultimi avvenimenti del Regno di Gioacchino Murat” edito nel 1880, che scrive invece che i generali  Aquino  e Medici dichiararono che la situazione non era così grave come si pensasse.

Sopraggiunsero quindi i generali Pignatelli e Lechi: il primo affermò che le sue truppe erano state annientate ed era rimasto solo, l’altro che lo “spirito delle sue divisioni era abbattuto”, giurava inoltre che alla vista del nemico sarebbero scappate, gridando al Re, come scrive Di Nicolantonio, che ormai era praticamente prigioniero degli austriaci. Il generale Lechi aveva partecipato alla campagna di Russia di Napoleone, respingendo nella battaglia di Borodino (1812), prima la cavalleria russa e poi conquistando le postazioni di artiglieria fortemente trincerate. Uno strano piagnisteo che se vero pone dei seri interrogativi, non tanto sulla viltà dei generali, gente, come detto, temprata dalle battaglie, ma sulla loro malafede, sulla scarsa motivazione, arrivando il Colletta a  ipotizzare il tradimento o un misto di tutti questi sentimenti.

Strano anche l’atteggiamento del Murat che probabilmente si era talmente fatto prendere dallo sconforto che non ribatteva nulla alle dichiarazioni pesanti dei suoi generali, a volte al limite dell’insubordinazione. Erano giunti anche dispacci da diverse parti del Regno di Napoli di sommosse e di truppe austriache che stavano per invadere il reame: inoltre ormai pareva chiaro che il Congresso di Vienna volesse la restaurazione dei Borboni. Forse gli alti ufficiali stimarono che non valeva la pena rischiare vita e cariche per una causa probabilmente persa, oltretutto per molti la fedeltà verso Murat non era certamente alta.

Anche se il consiglio di guerra alla fine stimò le notizie esagerate e inverosimili (non si poteva dissolvere un intero esercito senza quasi combattere), si ritenne più opportuno ritirarsi in tre colonne per rientrare nel Regno: una che da Montolmo passasse per Santa Giusta (Monte San Giusto) e Fermo, una che costeggiasse la riva sinistra del Chienti e l’ultima che passasse per le colline di Civitanova. Per la riuscita del piano occorreva però occupare la notte stessa Montolmo per bloccare la strada agli austriaci eventualmente provenienti da Petriolo, paese che i napoletani avevano abbandonato.

A questo punto Colletta narra del rifiuto di due generali di voler obbedire all’ordine di occupare Montolmo asserendo che sarebbe stato il nuovo fulcro della battaglia e quindi molto pericoloso (se fosse vero sarebbe davvero incredibile) e alla fine quindi Murat fu costretto a ordinare categoricamente al generale Caraffa di partire immediatamente per occupare il paese con una brigata della Terza Divisione a cui si aggiunse un reggimento di cavalleggieri, in tutto circa 3.000 uomini. I due generali della Terza Divisione al comando  del  Lechi erano Caraffa e Majo: sembra che il Lechi, insieme alle notevoli doti militari unisse un’insaziabile avidità per il denaro e per le donne, con una “immoralità senza limiti”.

L’indomani i soldati “persi nella notte” riapparirono (i prigionieri e gli sbandati pare comunque fossero circa duemila) e si diede inizio alla ritirata sotto una pioggia torrenziale e un freddo quasi invernale che fiaccò oltremodo il morale della truppa. Murat, si dice dopo aver fatto tranquillamente “toletta”, alle 8 scese da Macerata per la “Carrareccia” dove incontrò inaspettatamente gli austriaci che lo stavano aspettando avendo occupato il vecchio ponte del Chienti con 3.000 fanti, 600 cavalieri e 3 cannoni. Caraffa non avrebbe dovuto tenere solo Montolmo per bloccare eventuali attacchi da Petriolo ma presidiare anche il detto ponte: in questo modo gli austriaci si sarebbero ritirati per evitare di rimanere in mezzo tra il Murat e lo stesso Caraffa. Così non avvenne.

Generale Caraffa

Ci sono due versioni sull’accaduto: una che il Caraffa se ne stesse rintanato in Montolmo, come dice il Colletta, e un’altra che avesse già iniziato la ritirata verso Monte San Giusto senza aspettare il passaggio della colonna del Re. Comunque Caraffa era talmente preoccupato di ritirarsi velocemente che non aspettò i rifornimenti che aveva chiesto al comune di Montolmo, si accontentò di una contribuzione (probabilmente in denaro) mentre i cittadini, come racconta lo storico locale Bartolazzi, scappavano terrorizzati dal paese per paura del saccheggio e di rimanere in mezzo a un violento scontro. Caraffa non si fermò a prendere neanche i vettovagliamenti che a Monte San Giusto erano pronti e si diresse velocemente verso Fermo dove senza viveri ricorse al saccheggio.

Il Bartolazzi racconta che la popolazione era esasperata dalle continue richieste di viveri sia da parte napoletana che austriaca: chi fossero i “nostri” è difficile dirlo. A quei tempi, in teoria, gli austriaci che avrebbero riportato sul trono il Papa, mentre oggi, nella storiografia e nel comune pensare, sono i napoletani che si opponevano agli invasori stranieri. Ahimè, le verità cambiano a secondo del periodo storico.

Luigi Caraffa della Stadera di Noja (Napoli 13 aprile1781 – 1 marzo 1849), Cavaliere di Malta già a 2 anni, sposa Giovanna Salerno (1818-1862) figlia di Orazio e Rosa Vinciguerra. Il nobile Orazio Salerno (1777-1865) era stato un fervente rivoluzionario e aveva partecipato attivamente sia nell’esercito della breve Repubblica Napoletana, sia nei regni napoletani del periodo napoleonico: partecipò ai moti rivoluzionari del 1820 dove fu condannato a morte e poi amnistiato e poi a quelli del 1848. Il generale Caraffa era stato fin dal 1810 ufficiale di ordinanza dello stesso Re Gioacchino, nominato generale di Brigata nel 1815: quindi una persona di fiducia molto vicino alla sua figura.

Si è sempre difeso dalle accuse mossegli dicendo che aveva avuto l’ordine di occupare Montolmo e non di presidiare il ponte sul Chienti ed era anche per questo che non era intervenuto a sostegno delle truppe in ritirata. Ammesso come detto che non avesse iniziato la ritirata già la mattina del 4, il tutto sembra poco credibile: i testimoni raccontano che sembrava che il reggimento fosse scomparso nel nulla e quindi nel migliore dei casi, si era completamente rintanato nei dintorni di Montolmo evitando accuratamente lo scontro. Sembra inoltre quasi impossibile che non avesse mandato osservatori verso il ponte del Chienti per prevenire, anche se poco probabile, un attacco degli austriaci da quella parte, ed era quindi pienamente a conoscenza, se non si era già ritirato, della difficile situazione della colonna del Murat.

Dopo diversi scontri, alla fine il Re senza più l’artiglieria che aveva fatto già partire la sera prima, si mise a piedi personalmente alla testa del 6° Reggimento di Linea con due squadroni di cavalleria riuscendo a sfondare le linee austriache per dirigersi quindi verso Civitanova: da quel momento però la ritirata strategica pian piano si trasformò in rotta disordinata. Scrive il Colletta: “Il governo [napoletano] sentiva la sua caduta, la nazione non più ne dubitava… l’armata partecipava a tutti questi scoraggiamenti e li univa a’ suoi difetti organici, la indisciplina, l’indocilità, l’insofferenza” e “questo era lo stato delle cose al ritirarsi da Macerata”.

Di Nicolantonio traccia nel suo libro un quadro abbastanza negativo del Colletta: dotato di grande ingegno, di conversazione brillante, era però sempre alla ricerca dell’attenzione generale. Alternò la carriera politica a quella di militare acquistando un grande ascendente su Murat che lo nominò nel 1814 Consigliere di Stato, Ispettore Generale del Genio e infine Tenente Generale. Continua dicendo che nella Campagna del 1815 era l’unico generale che Murat ascoltasse e di cui si fidasse pienamente, ma sottolinea che evidentemente le sue doti militari non erano tali da sovvertire le sorti della guerra: anzi lo ritiene direttamente responsabile di diversi e gravi errori, anche se non saranno decisivi, nella condotta della Campagna. Adesso, per finire, una piccola precisazione: è riportato da numerosi storici che Gioacchino Murat sostò nella notte tra il 3 e il 4 maggio nella Villa Colle Bellavista di Morrovalle. Questo però è impossibile perché è chiaramente  accertato che in quella stessa notte fosse ancora a Palazzo Torri a Macerata.

Modestino Cacciurri

8 luglio 2022

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