Seconda parte – la Siberia – Superati gli Urali siamo in Siberia. Una parte della Russia enorme, con aspetti diversi del clima, del paesaggio, della vegetazione, delle persone. Dopo Tjumen inizia la steppa, una distesa sconfinata, che si perde all’orizzonte, ma umida, con stagni, paludi e con gruppi di betulle che rompono la monotonia del paesaggio. Si avanza per chilometri in un ambiente sempre uguale, ove il clima è mitigato dalla presenza di fiumi, campi di cereali nei quali avanzano mietitrebbia affiancate per il raccolto. La stagione del raccolto è in ritardo rispetto a noi: c’è la mietitura in corso.
Non appena il sole è coperto dalle nubi la temperatura scende per poi risalire con il sereno. Strada e ferrovia, le due linee di penetrazione verso l’est. Tanti cantieri aperti per migliorare lo stato delle strade in alcuni tratti larghe, lisce, scorrevoli, in altri strette, con il fondo dissestato. La vecchia strada che toccava i vari paesi è stata in gran parte abbandonata e rifatta toccando solo i centri più grandi. Incontriamo piccoli bar e ristoranti d’altri tempi e nuove stazioni di servizio. Ovunque però il rifornimento è “prima paghi, poi prendi la benzina”. Dopo un po’ scopriamo che possiamo fare il pieno tranquillamente a tutti i mezzi stimando in eccesso, perché se non si prende tutto il carburante pagato viene restituita la differenza.
Lungo la strada, più o meno vicina, corre la Transiberiana. Una linea mitica che attraversa tutta la Siberia da ovest a est. Un tempo serviva merci e persone, oggi il traffico passeggeri è molto diminuito per la concorrenza dell’aereo e sulla linea corrono quasi solo interminabili treni merci carichi di legname, carbone, minerali, materie prime verso i centri di consumo dell’ovest, tornando con macchinari, prodotti alimentari, generi di consumo per le città della Siberia. Le città sono sorte in funzione della ferrovia, man mano allargandosi intorno alle stazioni. Nelle stazioni ci sono ancora, anche se pochissimi li usano, i dormitori per i passeggeri che dovevano fermarsi per un qualsiasi motivo.
Da Tjumen a Iscim la strada è tutta nuova, scarta i paesi e avanza sempre uguale. Le stazioni di servizio sono nuove, con ristorante selfservice, bar, supermercato. Ai lati filari di alberi per proteggere la strada dalla neve portata dal vento. Sono belli, più delle vecchie barriere di legno. Da Iscim a Omsk, il paesaggio non cambia, ma facciamo conoscenza con la viscida terra nera siberiana, impossibile sotto la pioggia, che tanto fece tribolare Borghese. Una fermata sul bordo e si scivola subito nella cunetta. A Omsk fuori della città un aeroporto nuovo, in costruzione e abbandonato. Ci ritornano in mente anche analoghe cose di casa nostra. Entrare e uscire dalla città, ma da tutte le città siberiane, è un rebus, sono veri labirinti con totale assenza di segnali. Mancano le grandi direttrici di traffico delle nostre città e delle città della Russia europea.
Una sosta a Kujbisev e poi a Novosibirsk, il centro della Siberia, il nodo della transiberiana. Per noi di Overland è irriconoscibile. Palazzi moderni in costruzione ovunque, pub, birrerie, negozi alla moda. E i ragazzi in tutto uguali ai nostri. E le ragazze russe, alte, bionde, slanciate, bellissime. Ma come faceva lo zio Adolf a parlare di razza inferiore? Le avrà mai viste? Seguiamo sempre la M53, la grande strada siberiana. Prima di Kemerovo pranziamo in un ristorantino sulla strada. Ci servono una zuppa deliziosa, come solo qui riescono a farne. O sarà l’appetito? Dopo Kemerovo inizia una vegetazione più fitta, a fianco delle betulle pini e abeti, inizia la taiga, la grande foresta del nord dell’emisfero settentrionale. Prima di Krasnojarsk, ad Acinsk una enorme montagna di detriti e tante ciminiere ci fanno pensare che il rispetto per l’ambiente sia ancora di là da venire. È una grande miniera nonché fonderia di alluminio. Lunghi treni portano il metallo verso i centri di utilizzo mentre le ciminiere eruttano un fumo che si sparge sulla città.
Raggiungiamo lo Enisej che ci riporta ai tempi della scuola, alle lezioni di geografia. Verso Kransk la taiga diventa sempre più fitta e la strada mostra ancora i danni dell’inverno. Il gelo è implacabile e il tempo a disposizione per riparare i danni è scarso, così le buche restano anche da una stagione all’altra. Anche a Kransk un albergo degli anni passati, rimodernato ma sempre con locali angusti e problemi di efficienza. È il problema di sempre del pubblico e del privato, si nota subito se l’albergo è di una compagnia privata o ancora statale. A Kransk tre di noi prendono la Transiberiana per conoscere dal vivo e documentare questo mito. Alla stazione vengono fermati però dalla polizia. Mentre filmavano in sala d’aspetto una anziana signora va ad avvertire la polizia che interviene per controllare documenti e le scene girate. È incredibile, oggi quando satelliti spia vedono tutto, che ci siano ancora atteggiamenti del genere. Resiste ancora la convinzione che lo straniero sia una spia dalla quale difendersi. È consolante però il fatto che i giovani presenti erano indifferenti, anzi divertiti. Dovrà passare ancora almeno una generazione perché ci sia un atteggiamento più aperto.
Qui la strada tocca ancora i vari villaggi, che sono a trenta chilometri l’uno dall’altro. Alla mente si affacciano i ricordi delle deportazioni. I villaggi sono sorti nei posti tappa giornalieri dei deportati. Come sulla via Emilia da noi, ma lì sono stati i campi delle legioni romane a creare le città. Dopo Niznevdinst la taiga lascia il posto a estesi campi di cereali, un terreno ampio, aperto, un altopiano agricolo che ci accompagna fino ad Irkutsk, sulle sponde del lago Bajkal. È difficile riconoscere in tale paesaggio la taiga opprimente descritta da Barzini. A Irkutsk ritroviamo i turisti che erano scomparsi dopo Kazan. Negozi di souvenir, cartoline, connessione internet. Il Bajkal, che Borghese attraversò con un battello, è una delle più grandi riserve di acqua dolce, ma la fitta vegetazione sulle sponde ci impedisce quasi di fotografarlo. Il clima è cambiato, più continentale, freddo la sera e al mattino, mite di giorno, abbiamo anche solo 8 gradi al mattino e 20-25 di giorno.
A Ulan-Ude la transiberiana si divide, un ramo punta a Est verso Vladivostok, la storica stazione terminale, un ramo scende a Sud verso la Mongolia e Pechino. Anche noi puntiamo a Sud e ci dirigiamo a Kjahta verso il confine con la Mongolia. Il paesaggio cambia di nuovo, prima campi coltivati, poi solo più prati e macchie di bosco. Ogni tanto Kolcoz abbandonati dopo la fine della collettivizzazione forzata. Notiamo che in questa terra lontana resistono ancora i vecchi simboli del regime, la stella rossa, la falce e il martello, scomparsi invece in tutta la Russia. Ma forse non sono stati abbattuti solo per indifferenza perché anche qui le chiese ortodosse sono aperte al culto, ripristinate o ricostruite come lo sono in tutta la Russia.
Una grande caserma con tanti carri e cannoni ci avverte che siamo arrivati a Kjahta, che è infatti proprio sul confine. A Kjahta, se non fosse per le caserme, sembrerebbe di essere ancora al 1907. Case in legno, strade in terra battuta, solo la principale asfaltata, rari negozi, un solo alberghetto e un solo ristorante. I giovani però sono vestiti alla moda, bevono birra e fumano come tutti i giovani del mondo. C’impressiona il confine, realmente materializzato sul terreno da una doppia fila di reticolato con terreno scoperto in mezzo che si perde all’orizzonte e torrette sui crinali. Il varco è un cancello che lascia passare una sola macchina alla volta. Troviamo doganieri disponibili, ma la burocrazia non lascia spazio. Quattro ore per uscire dalla Russia ed entrare in Mongolia. Sappiamo poco di questo paese e ci aspettiamo una lunga attesa, invece il miracolo: impieghiamo due ore per riprendere la strada, ma solo perché la dogana russa ha fatto uscire i nostri mezzi a distanza di tempo l’uno dall’altro.
Il viaggio continua, ora siamo in Mongolia, tra pochi giorni saremo in Cina e poi finalmente l’Itala ritornerà a Pechino, dopo un secolo da quando la lasciò nel 1907. Sembra incredibile! La Siberia è ormai alle nostre spalle. Tornando indietro con il ricordo vediamo una Siberia diversa da quella che ci aspettavamo dopo aver letto il libro di Barzini. Una Siberia che allora era incombente sul viaggiatore, da temere, da odiare. Invece, oggi, la Siberia che abbiamo osservato al di fuori delle città industriali e minerarie è un deserto che conquista, con i piccoli villaggi formati da case di legno, quasi fossero delle oasi nel deserto. Addio Siberia, avremmo dovuto dedicarti più tempo di quanto abbiamo fatto. Qualche anno fa ci hai ammaliato con il tuo deserto bianco, oggi ci hai affascinato con il tuo deserto verde. Non ti dimenticheremo.
Gianni Carnevale
27 luglio 2022