Anchise Giuseppe Procaccini detto Jsè, maestro, studioso e poeta dialettale

Print Friendly, PDF & Email

Torniamo al pausulano Giuseppe Procaccini e alla sua collaborazione con la rivista mensile “Picenum”: nello scorso articolo la vita della scrittrice e giornalista Nada Peretti ci hanno distratto e onestamente affascinato.

Il Cavalier Anchise Giuseppe Procaccini detto Jsè (abbreviazione di Anchise), nasce a Pausula il 19 ottobre 1869 (lo stesso mio giorno e mese, quale coincidenza), dove muore il 4 novembre 1937. Fu maestro elementare e studioso della nostra cultura pubblicando diverse raccolte di poesie in versi dialettali, tra cui: “A la mirigghia” (1909), “Vanghènno” (1922), “Vejènno” (1934). Nell’Enciclopedia Italiana della Treccani del 1934, nella sezione “Marche, Letteratura dialettale”, viene definito “assai fecondo”. È il fratello del più famoso mazziniano Concetto Procaccini di cui abbiamo narrato le vicende diverse volte (principalmente La rucola n° 239; sul sito www.larucola.org Concetto Procaccini, un montolmese mazziniano e garibaldino | Associazione culturale La Rucola). Il figlio Alessandro fu responsabile dell’ufficio anagrafe di Corridonia e la figlia sposò il dottor Alfredo Rapanelli, che penso parecchi corridoniani ricordino. Il famoso musicista maceratese Lino Liviabella (1902-1964) mise in musica suoi versi in vernacolo.

Torniamo alla collaborazione del Procaccini con il mensile “Picenum”. Nel “Fascicolo XI-XII” (Anno VII, 1910) pubblica un interessante articolo dal nome “Il saltarello nelle Marche”. Si precisa che le strofe del “saltarello” – un ballo popolare proprio dei contadini marchigiani come specificato in nota all’articolo – vengono modificate di volta in volta a secondo delle circostanze in cui si cantano: io lo chiamerei in dialetto più propriamente “sardarellu”. È usanza che il giovane innamorato, saltando, “facendo mille gesti” accompagnato dall’organetto e dal cembalo battuto da qualche “arzilla” vecchia, canti strofe d’amore fatte di parole “buffe” e “strane” provocando l’ilarità di tutti: una ufficiale dichiarazione d’amore in pubblico, addirittura “per le antiche usanze”, una richiesta di matrimonio davanti alla comunità.

Vuole l’usanza che la ragazza, interessata o meno alla proposta amorosa, dovrà rimanere “seria e dignitosa” a occhi bassi in segno di umiltà e pudicizia: se trasparisse ilarità, noia o fastidio, questo verrebbe preso oltre che come netto rifiuto, anche come un segno di evidente scherno al giovane. Per non parlare poi se dette rispondendo in malo modo! Se la ragazza non tenesse il contegno di rito, per lo spasimante equivarrebbe a un affronto pubblico per cui egli “irritato e fremente di rabbia”, trasformerebbe le strofe d’amore in “pungenti e velenosi dispetti”. A quel punto la ragazza sarebbe richiamata dai parenti e fatta ritirare. Il giovane ridicolizzato davanti a tutta la comunità, da quel momento non farà che definire la ragazza poco seria e quindi una futura cattiva sposa e madre.

Senza inoltrarci nella disamina degli stornelli, canti che andavano a scandire le fasi principali della vita contadina, essi erano essenzialmente di tre tipi: “canti a dispettu”, come nel caso riportato per esprimere disprezzo e che a volte, se molto forti, sfociavano in veri e propri insulti; “canti a  batoccu”, poiché si alternavano nel canto uomo e donna rispondendosi come il movimento del batacchio della campana; “canti graziusi”, versi gentili, poetici e spesso d’amore con complimenti verso la donna amata. Procaccini trascrive alcune strofe di “canti a dispetto” che riportiamo in parte.  Il doppio senso a carattere sessuale è più che evidente.

Te vojo dà ‘na botta a lu zinale / te lo vojo fa ddì mamma me dòle, / te lo vojo fa ddì mamma me dòle, / mamma me dòle e ppò m’ha fatto male.

Lo benedico lo fior de spì bbianco / me pizzica lu core drento e ffòra / me pizzica lu core drento e ffòra / quanno me veco la mia bella accanto. / La veco accanto là / sbrighete o bbella e damme la mà.

Damme la ma’ e damme lu core / damme la ma’ che mamma nò n-vole, / damme la mano e ddamme lo petto / spojete fija annamoce a lletto.

Altro interessante articolo del Procaccini su “Picenum” è quello della serie “Marchigiani illustri” (Fascicolo II, Anno VII, Febbraio 1910). Il personaggio è Antelmo Severini che la mattina del 6 giugno 1909 morirà serenamente a Pausula. Lo studioso nasce il 2 giugno 1828 ad Arcevia e appena ventenne si laurea in Legge con Lode all’Università di Macerata. Si trasferisce quindi a Firenze per frequentare il corso di “Belle Lettere”. Bandita una borsa di studio in lingue orientali all’Università di Torino, su incitamento dei suoi amici e professori vi partecipa e ne risulta vincitore. Viene quindi inviato a Parigi a frequentare la scuola di Stanislao Iulien che ammirato dall’intelligenza dello studente scrisse al Ministro della Pubblica Istruzione Michele Amari lodandolo come il migliore dei suoi “discepoli” che mai avesse avuto in carriera. Lo stesso Ministro nel 1863 dovendo fondare un Istituto di Studi Superiori in Firenze, assegnò la cattedra di “Lingue dell’Estremo Oriente” al Severini: cattedra che tenne fino al 1900 “col massimo zelo e con vero entusiasmo” e ne divenne professore emerito insieme al Comparetti e al De-Gubernatis.

Antelmo Severini

 È da considerarsi il primo insegnante di cinese e giapponese nelle università italiane. Tra i principali alunni che ebbe e che nutrirono quasi una venerazione per lui, bisogna ricordare Ludovico Nocentini (1849-1910) e Carlo Puini (1839-1924). Questi sono considerati i maggiori esponenti della sinologia italiana tra fine ottocento e metà novecento. Molto numerosi gli scritti del Severini pubblicati nella “Rivista Orientale”, nel “Bollettino degli Studi Orientali” e nella “Rivista Europea”. Pubblicò inoltre, tra i tanti lavori, “Dialoghi cinesi” (testo e  traduzione, 1863), “Un Principe giapponese e la sua corte nel XIV secolo” (1871), “Uomini e paraventi” (traduzione, 1872), “Astrologia giapponese” (1875), “Repertorio sinico-giapponese” (in collaborazione con C. Puini, 1875), “Le curiosità di Yokohama” (1878), “Taketori o il Vecchio Tagliabambù” (traduzione, 1881).  Aveva inoltre preparato un dizionario sinico-giapponese con un originale ordinamento da lui stesso inventato, ma non lo condusse a termine a causa di una grave malattia mentale che lentamente troncò ogni sua attività.

Tra i tanti riconoscimenti ricordiamo: Ufficiale dell’Ordine de’ Santi Maurizio e Lazzaro e Commendatore della Corona d’Italia, socio onorario della Società Asiatica e del Giappone, membro della Società des ètudes japoneses, socio Onorario della Società Asiatica Italiana e della Società Asiatica di Tokio. Come il Severini sia finito a Pausula non è chiaro e meriterebbe un approfondimento, forse per qualche legame famigliare. Non mi sembra che il comune di Arcevia dove nacque lo ricordi in qualche modo. È dello stesso Procaccini l’epigrafe che scrisse di getto pochi minuti dopo aver visitato la salma. Non si conosce la sepoltura: non sembra essere stato tumulato a Corridonia anche perché nessuno lo ha mai ricordato e nemmeno si è avuta mai notizia o traccia della lapide che riportiamo.

Modestino Cacciurri

17 febbraio 2024

Sii il primo a dire che ti piace

Commenti

commenti