Una drammatica ritualità che risale a tempi antichissimi: la morte del maiale

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Chi de Natale no’ ‘mmazza u porcu, tutto l’anno va co’ u musu stortu” si diceva a Filottrano e nel maceratese, perché la carne del maiale macellato era considerata una riserva alimentare e proteica per tutto l’anno, una ricchezza della famiglia contadina: non a caso i nostri salvadanai avevano spesso forma di maiale…

C’è però un’ambivalenza del maiale nell’immaginario contadino: un tesoro da morto, prototipo di sporcizia e di tutti i vizi da vivo! Ancora oggi appellare qualcuno dandogli del maiale o del porco (al maschile o al femminile, in italiano o in inglese…) è quanto di più dispregiativo si possa. A Sant’Antonio abate, eremita nel deserto, il diavolo tentatore appariva in forma di feroce maiale, poi ammansito dal santo fino a diventare suo fedele accompagnatore, come appare nel santino devozionale, che in campagna  si teneva in tutte le stalle a protezione degli animali. Certo il maiale è l’evoluzione  del cinghiale selvatico (addomesticato dai cinesi nel 5000 a. C.), introdotto in Occidente dai popoli barbari (i Romani preferivano gli ovini per l’alimentazione) e poi moltiplicatosi allo stato brado nei boschi che durante il lungo Medioevo tornarono a rivestire le nostre campagne.

Tutto ciò giustifica la storica diffidenza verso il maiale, la cui carne da molti popoli antichi del Mediterraneo era considerata impura (o forse solo nociva per la difficoltà di conservazione nei climi caldi!): così per gli Ebrei; il Corano (sure 5 e 6) ne vieta il consumo (eccetto in caso di rischio di morte per fame). Anche nel Vangelo è associato a immagini negative (“dar le perle ai porci” nel senso di sprecare talenti e i demoni scacciati dall’uomo e rifugiatisi nel branco di porci che finiscono in mare…). Il maiale era apprezzato dai contadini perché onnivoro, quindi in grado di mangiare gli scarti della lavorazione di latte e formaggi, scarti di cucina, ghiande e altri vegetali, topi e uccelli e perciò la sua carne risultava particolarmente saporita.

Era allevato soprattutto per il grasso e – allora, non più ora – la sua qualità era proporzionale allo spessore dello strato di grasso sotto la cotenna: il lardo, usato per condire (battuto sul tagliere con prezzemolo e aglio!) era merce pregiata, prevista anche in pubblici contratti come forma di pagamento in natura. Di più: era usato come medicamento contro le infiammazioni e i reumatismi in particolare. Meno nobile il grasso che copre l’intestino del maiale, detto sugna, usato per ungere cardini e assi del biroccio, ma anche per friggere se fuso, filtrato e conservato come strutto dentro la sacca vescicale del maiale.

L’ammazzatura/abbattimento del maiale era un evento drammatico, da cui erano esclusi i bambini per il suo aspetto violento (oggi mitigato per legge): legato per il grugno con un cappio (anche per evitarne i morsi), il bestione (anche 2 quintali di peso) era caricato sopra il biroccio col timone a terra e legato a esso se non c’erano 6-7 uomini validi per tener fermo l’animale mentre lo scannatore recideva la vena giugulare con lo speciale coltello lungo e sottile; al fine della conservazione della carne il sangue (raccolto a scopo alimentare) doveva essere tutto espulso. Poi, sdraiato sulla paglia, veniva pelato, raschiato coi coltelli e lavato con abbondante acqua bollente in precedenza messa a scaldare nella stufa (neppure le setole si sprecavano, erano accantonate per farne pennelli). Legato coi tendini delle zampe a una scala già fissata al muro, veniva squartato a partire dall’inguine per la estrazione delle interiora, che essendo facilmente deperibili, erano accantonate per il pranzo o la cena della famiglia e condivise coi vicini. Recisa la testa (per farci la coppa) e tagliata con l’accetta la spina dorsale si ottenevano le due metà del maiale (pacche o mezzene), lasciate a scolare fino al giorno dopo: la metà con la coda sarebbe partita verso la casa padronale, l’altra restava per il contadino secondo i patti colonici mezzadrili.

Dopo 24-48 ore c’era la festa della pista per la lavorazione delle carni del maiale: si chiamava anche salata perché consisteva essenzialmente nella salatura per la conservazione prolungata. Anzitutto si staccava la coscia posteriore che, salata, pepata e stagionata per 12 mesi, sarebbe diventata sua maestà il prosciutto! Pian piano tutte le parti venivano disossate e scotennate, separati lardo e lonze, la carne magra veniva spezzata per essere macinata nella pistatrice a manovella e insaccata: tutta andava pesata in modo da salarla e speziarla secondo le rigide dosi tramandate in famiglia. Si diceva che tutta la salata doveva restare per 2-3 giorni vicino al camino acceso “per farla sudare” e poi tutto andava trasferito in ambiente freddo, ventilato e asciutto; solo salsicce e salami venivano appesi ai bastoni stesi al soffitto della cucina.           

Enzo Monsù

4 aprile 2024

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