Il poeta romantico Ugo Foscolo fa iniziare la civilizzazione umana “dal dì che nozze, tribunali ed are …”, quindi anche dalla regolamentazione del matrimonio, che da sempre comprendeva la “promessa di matrimonio”, cioè il fidanzamento.
Pare che nel mondo greco esso si perfezionasse col dono di una mela alla sposa da parte dello sposo; ma già per il diritto romano il fidanzamento (sponsalia) era un negozio giuridico, cioè un contratto scritto tra lo sposo e il padre della sposa (paterfamilias) in presenza di testimoni; era modellato sul contratto di compravendita, perché era destinato a regolare le condizioni patrimoniali dell’unione e, come tale, era più importante del matrimonio stesso. Nei secoli successivi, per tutto il Medio Evo e oltre, invalse l’abitudine di suggellare il fidanzamento con la stretta di mano dei contraenti, una bevuta di vino, un pranzo tra le famiglie e lo scambio di un pegno nuziale a garanzia dell’impegno preso e del possesso ottenuto, spesso una moneta detta “caparra” o un anello di ferro (anulus pronubus) che poi sarebbe diventato d’oro.
Lo scioglimento del fidanzamento equivaleva al divorzio ed era un’eventualità molto rara e di fatto una scelta molto difficile: se la donna era incinta l’uomo doveva addirittura versare alla famiglia di lei un ulteriore “risarcimento danni”. In questo contesto non c’entrava l’amore tra i fidanzati: semmai sarebbe sopraggiunto dopo, per ora prevaleva la “sistemazione” (dei conti) tra le famiglie. Dal 1700 cala l’importanza del fidanzamento ma solo per le classi borghesi, man mano che si afferma il “matrimonio d’amore” e infatti s’introducono i regali personali e d’abbigliamento come segni di devozione e anche l’anello non è più la caparra dell’impegno intercorso tra le famiglie ma il segno della scelta personale. La donna lo avrebbe tenuto per sempre al “dito dell’amore”, l’anulare sinistro. Questo solo per la borghesia intellettuale, invece la tradizione del fidanzamento rimase addirittura fino alla seconda guerra mondiale sia nelle classi subalterne che tra la borghesia fondiaria.
Perché questo lungo ancoraggio alla tradizione del fidanzamento, come contratto tra le famiglie? Intanto va detto che le occasioni d’incontro diretto tra ragazzi e ragazze sono rimaste a lungo limitate dalla scarsa libertà delle ragazze di uscire da casa da sole: solamente in chiesa era possibile ammirarle o quando attingevano acqua alla pubblica fontana… Spesso era dunque la madre a cercar moglie per il figlio, a volte orientata dal figlio stesso; se ad occuparsene doveva essere il padre, allora spesso ricorreva all’aiuto di un “ruffiano” o mediatore, che sapeva cercare (per una camicia in premio) i partiti buoni nell’ambito locale e della stessa condizione sociale secondo il proverbio “moglie e buoi dei paesi tuoi” oppure …“guarda la madre e sposa la figlia”.
Il ruolo dell’interessato era più attivo nella serenata, che poteva avvenire prima o dopo il fidanzamento; con l’aiuto di amici intonati a notte tarda lui cantava stornelli d’amore e di serie intenzioni sotto le finestre di lei, per decantarne bellezza e virtù. Se dopo un po’ s’apriva o s’illuminava la finestra era segno buono, di consenso. A breve, pure la porta si sarebbe aperta e il padre avrebbe offerto da bere per tutti, altrimenti la compagnia si sarebbe sciolta per evitare di ricevere in testa… l’orinale. A questo punto, in caso di consenso, si combinava il fidanzamento ufficiale: erano i genitori di lui ad andare a “parlare”, a chiedere per il figlio la mano ai genitori di lei; nell’incontro tra le famiglie si trattava la “dote”, i beni portati dalla promessa sposa a compensare il fatto che a lavorare in famiglia sarebbe stato, in teoria, solo il marito, dal quale -dunque – la donna economicamente dipendeva.
Se la sposa proveniva da famiglia povera la dote comprendeva solo il “corredo” personale: lenzuola, tovaglie e biancheria in genere (almeno 6 pezzi di ogni capo) di solito erano stati tessuti nel telaio di casa, confezionati e ricamati dalla stessa ragazza fin dalla più tenera età, da 7-8 anni in poi (faceva parte della sua educazione ad assumersi il ruolo muliebre), i pezzi più importanti a volte provenivano dalle doti di madri e di nonne; si concordavano pure gli utensili di rame e i preziosi, ma tutto era pronto da tempo perché -come si diceva- “prima si prepara la dote e poi si cerca lo sposo”. Il corredo, anzi, veniva custodito nella “cassa” di legno (che pure faceva parte della dote sponsale) e veniva registrato su un foglio di carta bollata da uno scritturale e sottoscritto dai promessi sposi e da due testimoni. Questa parte burocratica in altri usi locali avveniva la settimana prima del matrimonio, all’atto della cosiddetta “stima” della dote, una giornata di festa con pranzo organizzata dai genitori di lei, in cui i beni dotali venivano esposti all’ammirazione degli invitati.
Qualche giorno dopo “il parlamento” tra i genitori, si faceva la festa di fidanzamento per annunciare l’impegno matrimoniale a parenti e amici intimi. Da allora i due fidanzati chiamavano “mamma” le rispettive suocere e potevano finalmente incontrarsi tra loro, ma non fuori casa; era lui che “andava a fare l’amore” a casa di lei, di solito il giovedì e il sabato: parlavano seduti a distanza, alla presenza della madre di lei, che solo occasionalmente si assentava, come nella famosa canzone di Modugno “io, mammeta e tu…”. Dopo circa un anno di fidanzamento c’era la festa di nozze. Per chiudere va accennato che il “contratto prematrimoniale” sta tornando d’attualità negli ultimi anni soprattutto tra ricchi borghesi e personaggi dello spettacolo, per regolare con un atto pubblico i rapporti patrimoniali dentro la coppia ed evitare i frequenti conflitti nell’eventualità di separazioni e divorzi: nel patto, stipulato quando l’amore c’è, si prefigura la divisione di beni e finanze per quando l’amore potrebbe non esserci più, magari lasciando il posto al rancore. Ma questa è un’altra storia.
Enzo Monsù
4 maggio 2024