Nosce te ipsum: ben nota espressione che i Romani acquisirono dal greco facendola propria e che, secondo Socrate, incisa sul frontone di Apollo in Delfi, secondo il vocabolario Treccani in italiano consisterebbe in una esortazione agli “uomini al riconoscimento della propria condizione e limitatezza umana”.
È singolare che oggi mi sia tornata in mente costringendomi a rifletterci sopra dopo chissà quanto tempo trascorso. Certo da ultimo in tutt’altre faccende affaccendato, dedicandomi prima a spargere concime agli olivi, profittando di una giornata soleggiata e apparentemente tranquilla; lontano dagli insulti del traffico e dal perenne richiamo alle difficoltà della vita. Ma forse è questo l’anello di congiunzione che ha fatto nascere la curiosità di rinfrescare il senso di quest’antica espressione, peraltro mai dimenticata nel corso degli anni. Troppi, se riportati alla semplice cifra che li richiama, ma ancora pochi, almeno a voler dar retta a quello spirito bollente che non vuole arrendersi al crudo dato senile.
E così ogni giorno che avanza mi rallegro del continuo annoiare gli Amici con un motto per me ormai vitale: andiamo avanti! Alla barba di quanto succeda, ignorando tristezze e dolori, riportando allegria in molti cuori. Ma è ben noto che a parlare non è fatica e così dove vuoi andare se nel mentre stai eseguendo un lavoro quelle brillanti nubi temporalesche osservate prima hanno lasciato avanzare da lontano una coltre compatta di nero, che ora arriva veloce precorsa dal vento?
“Son perduto! – mi vien da pensare – devo correre presto al riparo, ma gli attrezzi son sparsi qui intorno; c’è il cancello da aprire ora a mano, perché chi lo dovéa sistemare, pur pagato, si è poi defilato e lasciato me nel mezzo del prato. E se arriva la pioggia molesta, con che cosa riparo la testa? E se smetto il lavoro intrapreso, tempo, soldi e sudore buttati. Corro il rischio di strappi inattesi e finisce che l’allegro mattino si traduca in un triste destino: di pomate e sedute annoiate con lo scorno di risorse sprecate.”
A quel punto mi aiuta la testa. E ragiono pensando al da farsi senza farmi fregar dalla fretta; riconquisto una calma assoluta; abbandono concime e secchiello; li ripongo pensando al domani; ragionando che il concime versato, con la pioggia di certo godrà. Apro in fretta il cancello lontano e sistemo la macchina fuori. Ecco allora mi soffermo a curar tre ferite di una pianta di fresco potata; salvo il mastice e abbandono di fretta il giardino; chiudo pure l’ingresso ed inchiavo. Nel momento in cui l’acqua qui arriva sono ormai nel mio guscio protetto; e giulivo riparto furtivo, ringraziando quel nosce te ipsum per aver consigliato la testa, cui ricorro fiducioso da sempre e che, sola, ancora mi assiste.
Giuseppe Sabbatini
19 maggio 2024