La chanson de Roland e Aquisgrana, ovvero come scoprire i luoghi (veri) della Storia

Tutti abbiamo sentito parlare o abbiamo studiato a scuola qualcosa del più popolare poema in versi altomedievale, la famosissima Chanson de Roland con l’episodio della “disfatta di Roncisvalle”. Ho avuto occasione d’interessarmi del poema cavalleresco insieme con le “Stampide” sempre di quel periodo storico, perché, contrariamente a quanto afferma la critica letteraria, la Chanson è nata nell’Italia medievale, quella terra che anche padre Dante dice si estendesse da Marsiglia a Pola.

La Chanson è il più celebrato poema cavalleresco cantato dai Trovatori e anche in Provenza era detto Canzò, guarda caso come lo pronuncerebbe un marchigiano doc perché qui da noi anche il lemma Canzone è troppo lungo e deve essere accorciato. Non voglio trattare qui la lunga e affatto sorprendente questione dell’invenzione assolutamente fantastica e pretestuosa del luogo geografico di Roncisvalle sui Pirenei come teatro delle gesta dello sfortunato paladino, ma piuttosto delle verità nascoste nel testo più antico che si conosca, ovvero il manoscritto noto come Digby 23, testimone indiretto, ma probante, della vera localizzazione, scoperta da don Giovanni Carnevale una trentina d’anni fa, della Aquisgrana che la storiografia vorrebbe in Germania.

Quando scrissi con Fabrizio Cortella e lo zampino di Paolo Pennelli il quadernetto “Sarracini, fichi secchi e Roncisvalle, la cansun d’Ruland nt’l post just”, avevo pensato solo a posizionare con maggior realismo il luogo dell’agguato. Sito ed evento che i cultori della letteratura, in ossequio ai cultori della storia taroccata per le ragioni di stato Pontificia e Bismarckiana, avevano ridotto a una scaramuccia fra i Baschi e la squadra addetta a un carro di provviste dell’esercito carolingio che aveva forse sbagliato strada in un bosco sui Pirenei, durante il ritorno ad Aquisgrana. Baschi e non Saraceni e inoltre luoghi come Roncesvalles e Valcarlos per nulla pericolosi o angusti come li descrive la Chanson, semmai il contrario visto che sono lungo il “camino” dei pellegrini per il santuario di Santiago.

Eginardo, scrivendo la vita di Carlo, il suo datore di lavoro, ha ricordato solo la scaramuccia con i Baschi, precisando che non erano stati puniti perché si erano mescolati alla popolazione innocente. Il biografo non ha, per comprensibili ragioni, parlato del disastroso e mortificante agguato saraceno, avvenuto invece ai Balzi Rossi, episodio che rimase impresso nella memoria popolare e che innescò la più famosa canzone trovadorica. Questa l’ho esaminata nella copia conservata in Inghilterra nella biblioteca di Lord Digby e inserita sul web dalla celebre università di Oxford. Sarebbe filato tutto liscio e continueremmo a pensare ai Pirenei, se negli anni ’50 non fosse comparso in un monastero della Navarra, un resoconto scritto nel Mille, di un centinaio di parole, la cosiddetta Nota Emilianense, che fornisce interessanti  precisazioni sullo scontro effettivamente avvenuto; nota che fra l’altro attesta chiaramente che furono proprio i Saraceni a uccidere Rolando.

Mi interessai della Chanson e dei luoghi dell’agguato anche perché, avendo trascorso alcuni mesi nei paesi Baschi per lavoro, ero a conoscenza del fatto che il re di Castiglia quando conquistò la Navarra nel XIV secolo, fece d’autorità cambiare tutti i nomi esistenti degli insediamenti baschi, sostituendoli con nomi castigliani. Cosa che i Baschi non hanno mai digerito completamente e ora è in voga per ogni luogo il doppio nome, basco e castigliano. A esempio la città di Arrasate diventò Mondragon, Donostia fu San Sebastian, Gasteiz divenne Vitoria, così il toponimo Rencesval come scritto sul Digby 23 venne appioppato al microscopico villaggio di Orreaga che divenne Roncesvalles e la vicina Luzaide divenne Valcarlos. Nel laborioso lavoro di inventarsi toponimi, qualche funzionario appassionato di poesia epica ha magari suggerito al Re questi nomi celebri, oggi sfruttati dalle agenzie turistiche basche e immutabilmente congelati nei testi critici sulla Chanson.

Rivedendo di recente l’argomento per altri motivi, credo di aver finalmente capito un altro aspetto probante della manipolazione storiografica del Medio Evo: un piccolissimo dettaglio che mi ha sempre incuriosito della storiografia medievale. Credo di aver finalmente trovato, grazie alla Chanson, la ragione per cui i Francesi, praticamente da quando sono andati in Francia e da Franchi sono diventati appunto Francesi, hanno chiamato e chiamano il sito di Aquisgrana con un nome tutto loro: Aix la Chapelle. Nei documenti medioevali il toponimo è Aquisgrani o o Aquis Grani, e si trovava nella “Francia antiqua” come scrisse a quei tempi Notker il balbuziente, ed è il toponimo, mai indicato come città, che don Carnevale per primo ubicò nella val di Chienti.

In Aquisgrana Carlo fece costruire l’Aquisgrani Palatium, oggi San Claudio, luogo in cui re d’Italia e imperatori fra cui Lotario, Ludovico e anche Matilde di Canossa, firmarono diplomi per i loro sudditi. Sempre nel sito di Aquisgrana, talvolta scritto solo Ais nella lingua dialettale dei Franchi, Carlo fece ampliare la “Basilicam magnam sancta Dei genitricis quam vocant capellam Karoli” ovvero Santa Maria a piè di Chienti, denominazione di cui ho scritto e parlato e nessuno ha avanzato obiezioni. Capellam Caroli e Aquisgrana sono parole che si leggono, ovviamente nella lingua dialettale dei Franchi, il Roman, anche sul Digby 23, come nella lassa (ndr: strofa della poesia epica medievale) in cui Blancandrino dice che “i Francesi se ne andranno in Francia la loro terra e quando ognuno ha raggiunto la sua migliore sistemazione, Carlo sarà “ad Ais a sa Capele”.

Il dettaglio del Digby 23 evidenzia il luogo, “ad ais a sa capele”, ripetuto più volte nel poema, dove Carlo vuole tornare (vedere foto sotto).

A questo punto occorre considerare che nel Basso Medioevo l’alfabetizzazione era ancora limitatissima, soprattutto nei territori della Gallia che non erano ancora diventati “Royaume de France”. Nozioni di storia e di geografia non erano materia d’insegnamento per i contadini e i “villani” dei piccoli agglomerati, l’insegnamento capillare era quello religioso e la storia era per i giovani il racconto della memoria degli anziani della loro famiglia. L’unico diversivo che a quei tempi dilaga nelle piccole corti feudali è la canzone trovadorica. Fra queste la Chanson de Rolan fa la parte del leone, conosciuta dappertutto dove, come ricorda Brunetto Latini, le genti si esprimono in Roman secondo l’abitudine dei Franchi.

Il poema diventa celeberrimo, del testo se ne fanno molte copie e i trovatori lo cantano di Corte in Corte: tutti sono ammaliati dalle peripezie dei paladini e dai sogni del “Carlun” nel lunghissimo viaggio che l’esercito intraprende per tornare a casa. Chi ascolta la Canzone  perciò sente dire, e sa, che ad “ais” Carlo ha la sua “capele”. Il luogo diventa celebre anche se nessuno o quasi dei piccoli feudatari e della gente che può permettersi lo spettacolo di un trovatore, conosce la geografia come la conosciamo noi e ha le idee chiare su dove sono toponimi come la Francia e Ais. Per gli abitanti delle Gallie altomedievali sono luoghi lontanissimi, per la stragrande maggioranza degli uditori sono dei nomi e basta. Più o meno come chi qui da noi non è un viaggiatore, anche se avesse sottomano una carta della Cina e sente parlare di Bei Jin, She Yang o Kaohsiung non sa né leggerne i nomi in mandarino né dove sono.

Devo ricordare che solo nel XIII secolo esisterà un Royaume de France nella Francia attuale, perciò questi toponimi, come i nomi dei paladini e dei saraceni sono solo nomi di luoghi lontanissimi e di personaggi astratti, come quelli dei manzoniani Renzo e Lucia. Ma nelle rime della Chanson è ripetuto più volte che “Carles li reis, emperer magne” anela ritornare proprio ad AIS A SA CAPELE, dovunque essa sia realmente. Per gli abitanti dei luoghi noti dai tempi di Giulio Cesare come “le Gallie”, quell’“Ais” che tutti sanno essere in Francia e distante dai territori in cui regnano i Capetingi è un luogo lontanissimo e basta. La cantata dei trovatori parla del luogo di “Ais la Capele” scritto in lingua Roman, che nell’evoluzione della lingua francese diventa la onirica “Aix la Chapelle” la capitale di Carlomagno. Il luogo reale dove c’è la Cappella è troppo lontano per  il sapere comune dei Francesi a quei tempi ed è per questo che nessuno di loro ricorda che il vero toponimo è Aquis Grani e in Francese sarebbe Aquisgrane, nome che si perde fino ai revival romantici ottocenteschi quando lo traslocano a Bad Aachen, che nessuno nel Medio Evo ha mai chiamato Aquisgrani.

Tutti però hanno letto o ascoltato la Chanson e sanno che ad Ais c’è la Cappella di Carlomagno e quindi il luogo è da loro chiamato Aix la Chapelle, che sorge nella lontana terra d’origine dei Franchi, luoghi i cui riferimenti sono stati radicalmente cancellati a opera del negazionismo pontificio dai documenti, ma non completamente dalla memoria popolare dei Piceni e di quelle genti rivierasche che assistettero alla rotta di Roncisvalle. Quando i filologi e gli storiografi germanici, spinti dal “Sanctus amor patriae dat animum” imporranno che Aquis Grani sia a casa loro nel luogo che i romani chiamarono Aquis Villa, non la storia, non le carte geografiche, ma il nome contenuto nella Chanson de Roland suggerirà ai Francesi di chiamare Aix la Chapelle, il luogo lontanissimo dell’antica Aquisgrana, anche quando il toponimo trasloca alla stazione termale di Bad Aachen, perché nessuno (o quasi, non Fustel de Coulanges) in terra di Francia (quella attuale ovviamente) è ormai in condizioni di ricordare da dove questo nome proviene e dove realmente fosse la residenza carolingia.

L’aver chiamato Francia la Gallia occidentale dove è andato a regnare Carlo il Calvo, faciliterà lo spostamento in quelle terre di tutto ciò che i cronisti scrissero e memoria popolare ricorda essere avvenuti nella prima Francia. Solo Notker distingue una Francia Nova e una Francia Antiqua, ma è volutamente considerato un cronista di poco conto e nessuno ci bada. Gli storiografi germanici (non c’erano ancora Internet ed era facile controllare le notizie dalla cattedra) sanno tutto questo e perciò si inventano la “Pfalzkapelle”, la Cappella palatina e trasformano radicalmente il duomo di Aachen, costruito nel XII secolo, arricchendolo di marmi e mosaici, sostituendo il pinnacolo ligneo con una cupola in pietra, progetto dell’architetto Bethune, attribuendolo al Carlone mille anni prima. La “Cappella di Carlo ad Ais” diventa perciò la Cappella palatina di Bad Aachen, anche se nessun documento originale contiene la lezione “Capellam palatii” né in Latino né in dialetto, ma l’etichetta Cappella Palatina per la reggia di Carlomagno diventa un pezzo di storia che dai testi germanici migra su tutti i libri di scuola e anche nella visione di don Carnevale.

L’unica fonte affidabile sull’argomento è la frase degli Annales Laurissenses, relativa al terremoto dell’829 che parla della “sancta Dei genitricis basilicam quam capellam vocant” ovvero l’edificio religioso aperto al pubblico fatto costruire da Carlomagno, perciò Basilica che la gente chiama “la cappella” per via di quella calotta sferica che la caratterizza. Quell’architettura era certamente una rarità per l’impegno tecnico ed economico nel costruirla ed essendo l’elemento di spicco della costruzione, l’edificio è divenuto famoso e conosciuto dappertutto con quel nome, come la basilica di San Pietro a Roma è chiamata  “il Cupolone”. In quell’edificio Carlone assisteva alle funzioni religiose e in esso fu tumulato e sono stati proclamati gl’imperatori dopo di lui.

Per queste peculiarità il Medioevo conobbe il luogo non già come Aquisgrana, nome rogato dai notai sui diplomi imperiali che dormivano negli archivi, ma cantata come  “capele ad ais” nella Chanson, nome che trasloca dalla vallata del Chienti in Renania quando la storia viene germanizzata e si inventa la Pfalzkapelle. Se prendiamo in considerazione che il nome Ais giunge nel Regno dei Franchi Occidentali, oggi la Francia, col successo della Chanson, se lo uniamo al fatto che la “Basilicam quam Capellam vocant” e la presenza degli edifici carolingi come San Claudio sono solo qui da noi, diventa invece chiarissimo quale sia il luogo in Val di Chienti dove esisteva e tuttora esiste la Basilica della Santa Madre di Dio che la gente chiama Cappella: quel “ad ais a sa capele” dove il Carlone sogna di tornare, luogo reso noto in tutto il mondo dei Franchi dai trovatori, nome che sarebbe giusto ritorni a esistere dove è nato.

Medardo Arduino

7 maggio 2025

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