Noi comuni mortali crediamo che Alì Agca sia stato il primo attentatore alla vita di un Papa. Illusione! Ce ne sono stati molti altri e, fra questi, anche un Consigliere comunale di Macerata, anzi un Assessore.
Nepotismo – Nell’ottobre 1613 Papa Paolo V trasferiva alle sedi riunite di Macerata e Tolentino, il Cardinale Felice Centini, cinquantatreenne proveniente da famiglia contadina nei dintorni di Ascoli. Il Cardinale, come era (allora, non adesso) l’uso corrente, portò con sé una serie di nipoti fra i quali Maurizio, che sarà poi buon Vescovo di Mileto, Bonifacio che col titolo di Barone di Joppolo e Coccorino introdusse in Macerata il melodramma, Marcello cui fu conferita l’Abbazia (abbastanza datata) di San Giacomo “di Trodica”. Più vivace fra tutti era Giacinto che, grazie allo zio Cardinale, entrò nel “Consiglio di credenza” (una specie di Giunta comunale) maceratese inserendosi nella nobiltà locale.
Alla morte di Gregorio XV avvenuta nel 1623 il Cardinale “non andò quasi lontano dal supremo pontificato”. Ma, purtroppo per lui, fu eletto il cinquantaseienne Maffeo Barberini che assunse il nome di Urbano VIII. Gli anni passavano. Urbano VIII godeva di ottima salute; poetava, proteggeva ed esaltava i nipoti e minacciava di durare a lungo. Questo fatto impensierì gravemente Giacinto che sperava di diventare il favorito di uno zio Papa. Correva l’anno 1633. Urbano non si decideva a passare agli eterni riposi, mentre il Cardinale contava settantuno anni.

Giacinto decise di passare all’azione per “essergli stato supposto” – come narra un cronista contemporaneo – da un tal Romito, abitante già in Montecassiano diocesi di Recanati, che dopo la morte del presente Sommo Pontefice, non poté essere altro Papa che il signor Cardinale d’Ascoli (così era detto il Centini) suo zio, conforme si raccogliea dalla figura della sua natività (oroscopo, quindi) e da un libro di profezie dell’Abbate Giracino, venendosi anche tutto ciò confermato da un tal frate Cherubbino da Foligno dell’Ordine de li Zocolanti (Minori osservanti) e da un frate Domenico Zampone da Fermo dell’Ordine di Sant’Agostino. Ma che, dovendo Nostro Signore (il Papa) vivere lungo tempo era necessario di provvedere con incanti, negromanzie et altre cose simili et sortilegi per levarlo presto di mira.
Perciò, unitamente, formarono una statua di Cera Vergine (attenzione alle maiuscole!) che rappresentava l’immagine di Sua Santità vestito di piviale e mitra e quella, dopo averla battezzata et impressa in faccia in petto et in altre parti (speriamo bene!) di diversi diabolici Caratteri, fu da loro posta in una stanza del suo palazzo della villa di Spinetoli in mezzo ad alcuni Circoli con invocare ben spesso i Diavoli e fare altri Segni e proferire parole di Superstizione. E poi, avvicinandosi al fuoco detta Statua, permettevano che, a poco a poco, si andasse liquefaciendo col gettarla al fine nell’istesso fuoco persuadendosi in tal maniera che dovesse anche, a poco a poco, mancare la Vita di Sua Santità a similitudine di un’altra statua simile fatta da Frà Zampone ad captandum amorem (ma guarda!)…
E dopo aver fatto tale incantesimo, non vedendo comparire alcuno spirito che dasse relatione se l’incantesimo era ben fatto pensarono che vi fosse mancata alcuna Cosa…per il che determinarono Nuova Statua, da fare Nuovo Incantesimo e, per aver più forza esser necessario che vi intervenissero sette Sacerdoti e che si dovesse uno di questi ammazzare e sacrificarlo al Diavolo con provedersi di tal Cortello e chiodo nuovamente fabricati con certi Caratteri con la giunta di Cera Vergine e filo filato da una Vergine (attenzione all’integrità!) ed una Verga (sempre maiuscola!) d’Avellana con calamita battezzata, esponendo anche alcune suddette Cose nel santo Sacrifizio della Messa più e più volte in modo tale che, producendo le diaboliche sue Superstizioni il suo effetto e morendo Nostro Signore (il Papa!) e riuscendo suo Zio Papa egli a tutti prometteva ricchezze, dignità ed ogni altra grandezza da loro desiderabile”.
Giunti a questo punto Frà Domenico s’impaurì. Denunciò il fatto alla Curia di Recanati che lo dirottò all’Inquisizione romana. Processo rapidissimo. Agli imputati minori, fra i quali il “pentito” Frà Domenico (anche allora!) furono irrogati vari anni di galera (ossia a remare nella flotta pontificia) o di semplice carcere. Invece, la mattina del 23 aprile 1635, Giacinto Centini, il Romito e Frà Cherubino (quasi imitando Giordano Bruno) furono condotti in Campo dei Fiori. Il Centini fu decapitato, pena riservata ai nobili, mentre gli altri due, come plebei, furono impiccati “ e poi subito abbrugiati”.
Caratteristica, per la mentalità dell’epoca, la reazione del Cardinale-zio che, alla notizia dell’esecuzione “domandò con ansietà se Giacinto era stato impiccato e, intendendo di no, subito quietossi anteponendo – come dice eufemisticamente il cronista – la giustizia pubblica alla legge della carne e del sangue”. La profezia del Romito si dimostrò fasulla. Il Cardinale-zio morì nel 1644 mentre Urbano VIII gli sopravvisse di tre anni. Vai un po’ a dar credito ai profeti.
Libero Paci
17 ottobre 2025


