Aquisgrana: la botanica esclude Aachen e promuove San Claudio

Print Friendly, PDF & Email

Il “Capitulare de villis” è un documento che ha fatto versare fiumi d’inchiostro, fin da quando fu riscoperto fra le scartoffie dell’Università di Helmsted nel 1817.

 

Attribuzioni varie del Capitulare

Attribuito subito a Carlo Magno dal momento che nei Codices Helmstadienses è redatto insieme alle lettere di Papa Leone III a Carlo Magno, da Alfons Dopsch fu invece attribuito al di lui figlio Ludovico il Pio. Lo storico austriaco adduceva come prova il fatto che le specie botaniche nominate nel documento potevano essere coltivate solo nel Sud della Francia e non nel clima di Aachen, dove viene collocata Aquisgrana dalla storiografia ufficiale. Nella querelle fra sostenitori della tesi sudista e di quella nordista s’inserì Marc Bloch, che disse in pratica che l’importanza del documento era la stessa, sia che fosse attribuito a Carlo o a Ludovico. Mi permetto di dissentire da tutti e due. Un altro autorevole studioso, Ganshof, dubita che il documento sia valido per le terre sotto il dominio Franco, se non per il “nido dei Franchi”, la terra (dice lui) al centro della Gallia.

 

L’elenco del “nostro” esperto

Il sottoscritto, chiedendo umilmente perdono a cotanti storici, si è interessato al caso in seguito alla lettura della lucida analisi del “Capitulare de villis” fatta dalla signora Barbara Fois Ennas. Rispolverando le mie conoscenze in botanica e i libri con cui ho preparato la mia tesi di laurea, in cui si parlava di fitogeografia, ho fatto un elenco delle specie botaniche citate, la maggior parte delle quali sono quelle del famigerato LXX capitolo. Di queste, in caso di dubbia attribuzione sistematica, ho riportato tutte le ipotesi vagliate. Per questo motivo il numero delle specie risulta più alto rispetto a quello originale. Inoltre ho inserito nell’elenco specie che sono indicate indirettamente. Per esempio se si parla di birra e di malto mi pare chiaro che posso inserire l’orzo in questo elenco.

 

La strana assenza dell’olio di oliva

Nel documento non si parla di olio di oliva, stranamente, osserva la signora Fois Ennas. Io faccio osservare che alcuni traducono il vocabolo “torcularia” del capitolo XLI con il termine frantoi anziché torchi. Ciò potrebbe autorizzare a includere anche “Olea europea”. Ma io penso che l’olivo in quel periodo non venne coltivato per motivi climatici e, a proposito di “vino di more”, ho riportato le specie di Rubus che secondo il Pignatti sono le più diffuse in Europa. Ho ricavato pertanto un elenco di 125 specie botaniche. Con un po’ di pazienza ho ricercato sulla guida botanica del Pignatti la zona di origine  delle varie specie che compaiono nell’elenco.

 

Suddivisioni delle specie in raggruppamenti

Area tropicale: sono presenti 13 specie (10,4%) provenienti da Africa e India e indicate come paleotropicali.

Area mediterranea: sono presenti 44 specie (35,4%) e, di queste, 20 sono indicate come euri-mediterranee, 9 steno-mediterranee (caratteristiche della zona mediterranea e non adatte a diverso clima), 6 mediterraneo-turaniche (cioè provenienti dalle steppe desertiche di Siria, Palestina, Giordania).

Area centro asiatica: sono presenti 24 specie (19%) fra cui ho inserito 4 specie dichiarate “pontiche” e 2 specie “caucasiche”.

Area centro europea – siberiana: sono presenti 28 specie (22,5%) che sarebbero le più adatte per il clima di Aachen (è la città della Westfalia ritenuta Aquisgrana e si trova a 50 km a ovest di Colonia). Da notare che nell’elenco sono presenti 2 specie dichiarate di provenienza centro americana, 1 di origine cinese e le rimanenti 12 specie sono di origine indeterminata.

 

In Italia la maggior parte delle specie sono spontanee

Un fatto da evidenziare è che nelle varie regioni italiane queste specie sono presenti come specie spontanee in percentuali oscillanti tra il 75% e l’85% e che tutte possono essere coltivate senza problemi. Le uniche zone che potrebbero ospitare in maniera simile questo tipo di flora, fuori dell’Italia, sono la Provenza e la costa Dalmata, che non sono in discussione.

La notevole presenza di specie mediterranee e tropicali vieta di poter accettare che il luogo del “Capitulare de villis” sia Aachen, a meno che si sia disposti a credere a notizie del tipo: il diavolo è morto di freddo. Non può nemmeno essere l’Aquitania di Ludovico il Pio perché la Provenza, l’unica parte della Francia in cui sarebbe possibile la presenza della flora in questione, non ne faceva parte, essendo associata al regno d’Italia.

 

Il vino cotto

Nel Capitulare si parla chiaramente di vino cotto: il vino così denominato si può considerare senza dubbio un prodotto tipico della provincia di Macerata, con Loro Piceno come centro di produzione. Non sarà il caso di proporre la candidatura della provincia di Macerata  come terra del “Capitulare de villis”? Una ultima cosa per rispondere a una osservazione della signora Fois Ennas: i nemici che vengono nominati nel Capitulare senza essere specificati non mancavano neanche qui: erano i Bizantini e i Longobardi del ducato di Benevento.

Diffusione della vite in Europa; due cerchi indicano Aachen e San Claudio

 

Il formaggio pecorino

Un altro prodotto tipico della zona, che non prova nulla, ma contribuisce alla ricostruzione dello scenario carolingio è il formaggio pecorino. Si legge nella “Storia d’Italia” di Montanelli-Gervaso, Fabbri editori, che nel carro, con cui Carlo Magno si spostava, non ne mancava mai una cassa di scorta. Da quando un vescovo glielo fece assaggiare ne fu ghiotto, trovandolo una ottima alternativa al pesce, nei giorni di astinenza dalle carni, che rispettava in maniera puntigliosa.

 

Coincidenze campagnagnole maceratesi

Per concludere il discorso sul “Capitulare de villis” non posso non sottolineare alcune coincidenze che io, nato in campagna, da genitori che vivevano in un contesto molto simile a quello del mondo agricolo in cui si fa riferimento in questo scritto, ho subito associato ai miei ricordi d’infanzia. Il mondo contadino è per sua natura notoriamente conservatore, ed è normale che i modi di coltivare, i detti, la cultura, risalgano molto lontano nella storia. Due cose in particolare mi hanno colpito nel leggere questo documento:

la prima la consuetudine di fare i conti a fine anno, tra Natale e la Epifania, come facevano mio padre e mio nonno quando lavoravano in campagna;

la seconda il fatto che sono nominati consecutivamente due ortaggi, “cucumeres et pepones”, che mio padre coltivava sempre insieme, quasi rispettasse più una tradizione che una esigenza pratica, chiamandoli però “cucummiri e meloncelle”.

 

Quercia e querceti

Il fatto principale resta comunque che la maggior parte delle specie menzionate nel documento, circa il 45% di esse, non possono essere coltivate alla latitudine di Aachen se non in una  serra climatizzata, che a quei tempi mi pare non fosse usata. Una ulteriore nota botanica riguarda le querce. Nel “Capitulare de villis” si parla anche di animali che si cibano di ghiande: in altri documenti coevi addirittura si dice che dal numero dei maiali si misurava l’estensione dei boschi. Questi maiali lasciati liberi nei boschi venivano detti “sogales”. Ora l’unica specie di quercia che si sviluppa bene alla latitudine di Aachen è Quercus robur. Questo tipo di quercia ha uno sviluppo molto lento per cui i boschi non possono essere monospecifici, cioè costituiti da una sola specie: si trovano esemplari isolati, alcuni maestosi come doveva essere la quercia di Geismar, sacra al dio Donar. Questa quercia è passata alla storia perché ritenuta immortale e veniva adorata come un dio dalle popolazioni pagane dell’Assia, ancora animiste. San Bonifacio, l’apostolo della Germania, la abbatté a colpi di scure per dimostrare che non avrebbe avuto alcuna conseguenza dal gesto: infatti molti, vedendo che il loro dio non uccideva il monaco, si convertirono al cristianesimo. Da noi crescono diverse specie di quercia per cui si possono avere boschi quasi di sole querce, in cui risulta economico lasciare il terreno al solo uso di pascolo per maiali: là non sarebbe stato altrettanto pratico.

 

La toponomastica

La toponomastica dei documenti basso-medievali ricorda che qui c’erano “villae, curtes, ministeria, comitatus, privilegia” senza dimenticare la “marca”. Nessun altro luogo al di fuori delle Marche può vantare il permanere per tanto tempo questo modo di suddividere il territorio, il modo decritto nel “Capitulare de villis”. In questo documento, nel capitolo VI,  c’è scritto che ogni villaggio possiede una chiesa (ecclesias quae sunt in nostri fiscis): nelle Marche queste chiese ci sono, tante che nemmeno gli studiosi specializzati le conoscono tutte. Sarà che ho viaggiato poco ma non ho visto da nessuna parte la densità di chiese piccole e antiche come qui da noi. Marchigiani, non lasciatele allo sfacelo, almeno non distruggetele del tutto, come succedeva nel medioevo, ut a memoria hominum laberentur, come scrive Gregorio di Catino nel Chronicon Farfense.

 

La lingua

Un ultimo pensiero, forse già espresso, riguarda la lingua del “Capitulare de villis”: a me suona molto familiare, perché era la lingua di quei tempi di questo territorio. Se fosse stato scritto per i Tedeschi, i Frisoni, i Sassoni, l’avrebbero capita in quattro gatti: chi dettava, chi scriveva, qualche iudex e missus

Enzo Mancini

7 luglio 2019

A 12 persone piace questo articolo.

Commenti

commenti