Un personaggio balbuziente dalla battuta pronta: il dr Siviglia

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Ecco Siviglia, acceso goliarda della Facoltà di Medicina, studente in quel di Bologna e praticante presso il reparto chirurgico dell’Ospedale Provinciale della città natìa. Nei momenti di libertà si passavano interi pomeriggi insieme, a bighellonare (stagione permettendo) per il corso con le ragazze o senza, oppure in lunghe sfide al biliardo o nel buio di una sala cinematografica, quando all’esterno neve, pioggia o nebbia intorpidivano membra e cervello. Tutto ciò sempre in ossequio a regole di vita proprie dei più inveterati “vitelloni” di felliniana memoria.

 

Una nuova interiezione

Molto di compagnia, il Siviglia non si sentiva per nulla complessato dalla costante fatica dell’esporre a voce che lo affliggeva da sempre. E tra un “e che…” , un “siccome”e un “perché” sparati a caso, a far da filo di rammendo del rifluire sintattico, dominava dall’alto della sua statura situazioni e conversazioni. Anzi, pur essendo il più anziano della combriccola di amici, era, strano a dirsi, il più pronto a rinfocolare un’atmosfera in fase calante o a restituire la giusta dose di brio a una combriccola a volte inconcludente e ingrigita dalla noia; come spesso accade – o almeno accadeva – nei gruppi di giovani. Una sera, durante una melensa festicciola da ballo in casa di comuni amici, le danze stavano languendo in una stasi di tedio mortale, tra un blues e uno slow-fox, eccezion fatta per le solite tre coppie ormai stabilizzate che – profittando delle luci soffuse dell’ambiente – pomiciavano in un angolo del tinello, sbaciucchiandosi tra sospiri trattenuti e risatine soffocate. Il disco, scelto con cura dal “tecnico” brufoloso, in un mucchio scompaginato di copertine da 33 giri, frusciava in sottofondo, al fioco riflesso rosato della spia del pick-up. Nel clima denso da pomiciatoio, sovrastando le note delle orchestre di Ray Conniff o Melachrino, si udì d’un tratto la voce acuta in falsetto del Siviglia che, presumibilmente seccato da un qualche rifiuto alle sue profferte amorose, cincischiò: “E piàntala co’ ‘ssa gnàgnera… ma che vai… penelopenno !?”, interrogativo che, tradotto in lingua, verrebbe a significare: “Finiscila con questa lagna. Ma cosa cerchi? Cosa vai penando?”- Ma in quel gerundio finale c’era una sottile, elegante allitterazione suggerita dal nome della ragazza incriminata, oggetto delle attenzioni amorose dello spilungone, ma non acquiescente alle stesse. Penelope si chiamava la bambolona (Pucci per gli amici) e stavolta Siviglia, con una simultaneità davvero prodigiosa tra pensiero ed esternazione, aveva collegato l’idea della sofferenza (penando = penenno = penelopenno) con la radice etimologica dell’insolito nome omerico. Ne era sortita una nuova interiezione, assai efficace, se considerata dal punto di vista dell’impatto fonetico. La frase fece testo nel gruppo per molti anni a venire.

 

Al cinema

Altra occasione al cinema. Occupavamo una intera fila di poltroncine di platea al vecchio Cinema Corso. Mi sembra opportuno osservare – per inciso – che nelle zone dell’Italia Centrale la platea rappresenta il punto di raccolta degli spettatori di ben definite categorie (ragazzi a corto di grana, militari, coppiette in cerca di buio e tranquillità, pensionati, pederasti, marchettare ecc.) contrariamente a quanto succede, a esempio, nelle regioni dell’Italia settentrionale, dove la plebe viene di solito irreggimentata in galleria. Una insolita divaricazione delle caste, intesa a nord come sottolineatura di una congenita condizione di inferiorità delle masse, per lo meno dal punto di vista di una collocazione logistica. Concepita, al contrario, nel centro-sud come affossamento definitivo di ogni aspirazione al miglioramento. Per conseguenza diretta se ne deduce che il “baronato” deve spadroneggiare come sempre dall’alto: dalle ville in collina, dai palazzotti a tre piani in cima al paese, dai balconi, dai pulpiti e dalle… gallerie dei locali di spettacolo. La vicenda dunque incalzava, tra spruzzi di colonne d’acqua salmastra, musiche trionfalistiche in sottofondo, comandi secchi e perentori, fumate di proiettili a salve. Si proiettava una di quelle pellicole imperniate su storie di fondali, di sommergibili, di uomini grigi, lustri di sudore e di grasso, stelle e strisce sempre in cima al più alto pennone della storia. A bordo del sottomarino, nelle sequenze di maggiore intensità emotiva, cadenzate da motivi falsi e stereotipati come le scene ricostruite nel teatri di posa, gli ordini si inseguivano e si sovrapponevano concitati: “Aria alla deriva… Meno sette, sei, cinque… Aria alla deriva… aria alla deriva… Fuori periscopio… fuori periscopio… Pari avanti tutta… pari avanti tutta…” così, in diverse tonalità e registri di voce, dal comandante all’ultimo marò, in un crescendo spasmodico di rimbalzi vocali e di accavallamenti sonori di facile effetto. In un attimo di necessaria stasi, dopo l’avvenuto lancio dell’immancabile siluro, preceduto da un’altra sventagliata di concitati comandi operativi: “Pronti tubi di lanciopronti tubi di lanciopronti tubi di lancioFuori unofuori unofuori uno…”, nel silenzio della platea, attanagliata dall’incalzare degli avvenimenti, si levò – chiara ed esitante – la voce in falsetto del dottor Siviglia, che puntualizzò, con i consueti inciampi: “Anzi che avrìa potuto fa lu ssssommergibilista io… per quanno avìo dato l’ordine… era finita la guèra!”

 

L’amico incidentato

Quando era libero dagli impegni della sala operatoria, Siviglia, da buon apprendista, faceva il giro delle camerate e ascoltava attentamente indirizzi e suggerimenti del primario durante la visita mattutina dei ricoverati. Quel giorno erano tutti assiepati, il Capo, gli assistenti, le infermiere di turno, nella camera separata n° 14 dove giaceva un ispettore dell’Inail, reduce da un grave incidente stradale a bordo della sua Citroen. Il giovanotto era rimasto dodici giorni in coma e ora stava riemergendo dal tunnel nebbioso di incoscienza in cui era precipitato per tanto tempo. Dopo gli accertamenti di rito e le debite prescrizioni curative la troupe medica in visita uscì dalla stanza, tra sorrisi bene auguranti e commenti compiaciuti per i progressi del paziente. Ultimo della fila, Siviglia, amico dello sfortunato paziente, si sentì trattenere per una manica del camice. Da sotto le bende uscì una voce flebile e ansimante: “Siviglia, aspetta… un attimo… ti voglio chiedere una cosa. Non riesco a sollevare il braccio sinistro… ci sarà qualcosa? La mente mi dice che posso farcela, ma, per il momento, è come se l’arto non volesse ubbidire. Dammi una occhiatina, ora che è uscito il professore… con lui non si può mai parlare… vedi un po’ tu cosa mi succede…”. Siviglia si volse verso il capezzale dell’amico, immobile sotto le lenzuola. Afferrò con due dita il braccio anchilosato, lo sollevò lentamente verso l’alto, lo sostenne per un attimo, poi lo lasciò andare di colpo. La mano giacque inerte sul letto. L’ammalato ebbe come un singhiozzo represso e sempre più debolmente esclamò: “Vedi, Marco, che ti dicevo. Non lo tengo… non risponde alle sollecitazioni… che dici? Che sarà?” L’anestesista, avviandosi, si trattenne per un attimo sulla porta a vetri, poi si voltò verso il letto dell’amico sofferente e, con un mezzo sorriso di incoraggiamento, ma con un attacco di balbuzie più accentuato, disse: “Non te preoccupà… quessa è ‘na paralisi…!” Quando si dice l’umanità del medico e il sostegno dell’amicizia!

 

Suor Liduina, corra!

Sul lettino della sala operatoria era disteso pressoché nudo un giovane agricoltore, un pezzo di marcantonio di un metro e novanta, in attesa di essere operato per una banale appendicite. Tutto era pronto per l’intervento e Siviglia aveva iniettato la consueta dose di penthotal in vena. Talvolta accade che, sotto l’effetto dell’anestetico, una strana protuberanza si evidenzi d’improvviso sotto il telo verde, all’altezza del bassoventre dell’operando. Così fu nella circostanza. Al di sopra delle mascherine asettiche, occhiate furbette di intesa si accesero e si incrociarono tra i medici presenti all’avvenimento e le infermiere schierate ai lati del letto. In soggetti particolarmente sensibili, sottoposti ad anestesia (mi spiegava un amico esperto di camere operatorie) può verificarsi, durante la fase di passaggio dal dormiveglia al sonno ipnotico, nell’inerzia della posizione supina, una imprevedibile erezione, che persiste per qualche minuto, finché l’operatore non comincia a incidere. Attimi di sospeso imbarazzo. Qualche colpetto di tosse di disimpegno. A questo punto i presenti vedono Siviglia strapparsi di botto la mascherina dal viso, precipitarsi in tutta la sua atletica possanza fuori della stanza e mettersi ad urlare a gran voce lungo i riverberanti spazi del corridoio: “Suor Liduina… suor Liduina (questo era il nome della monaca “cappellona” con incarico di caposala del reparto chirurgico). Venga a vedere; corra… la vòle lu professore… venga de prèscia… corra…  adè difficile che jè capita n’andra occasciò’ de vedè n’ affare cuscì!”

di Goffredo Giachini

1 novembre 2019

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