In ricordo di un artista e delle ragioni del suo operare: Nino Ricci e le tenui luminosità

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In omaggio e in ricordo di un grande artista e amico che ci ha lasciato di recente, Nino Ricci, ci piace proporre ai nostri lettori una conversazione svoltasi nel suo studio, nel mentre si sceglievano sue opere da inviare al Premio Marche in una sezione intitolata “Dalla materia ai materiali per un luogo e un tempo”.

Anno 1991, titolo: “Amo inseguire la luce e colori molto tenui” – “Non è l’oggetto che mi interessa. E arrivo a dire che non mi è necessaria anche la rappresentazione della materia che vien fuori. Per me è indifferente, ripetere dieci volte la stessa cosa; l’esperienza che mi interessa è la pittura, il colore. Questo è un fatto spontaneo esente dalla volontà. Voglio rappresentare il porfido, voglio rappresentare una specifica materia; non è questo che mi desta interesse. Mi prende invece l’inseguire la luce, e creare queste cromie molto soft che sento assolutamente mie.

L’acquarello molto colorato non lo sento. L’oggetto che adotto è un pretesto per fermare con la massima rapidità e cogliere al volo una idea, quella che mi sta venendo in quel momento. L’acquarello mi consente questa immediatezza. Poi l’idea la elaboro, la lavoro ulteriormente, perché mi viene in mente che posso realizzarla anche in altro modo. E allora ripeto, per cui di uno stesso soggetto ne faccio quattro o cinque versioni.

Nei miei primi lavori, come nelle costruzioni geometriche che caratterizzarono un periodo, c’era una idea iniziale, un disegno deciso che m’impegnavo a perseguire. Adesso invece, molto spesso, parto da una specie di caos a cui tento di dare ordine. La logica è rovesciata, e ciò mi dà una sensazione di libertà. Determinante è anche il rapporto costante che voglio mantenere con la storia. È da lì che vengono fuori forme più o meno arcaiche. Io non credo che noi oggi siamo scientifici perché l’evoluzione scientifica ci ha fatti così, lo siamo perché si è prodotto un processo storico continuo che ci ha portato fatalmente a esserlo.

Noi siamo quello che altri hanno lavorato per cui noi fossimo, e lavoriamo per quello che altri dovranno essere. Non vedo in ciò interruzioni: è un filo continuo, inseparabile. Entro questa logica io sono affascinato da queste forme primordiali, semplici. L’emozione, la spinta emotiva viene data da queste cose che ho detto. Scatta un meccanismo di tipo inconscio: un motivo dentro di me che mi conduce. Per questo sostengo che la mia pittura cresce dall’interno di sé.

Queste forme, di conseguenza, sono molto enigmatiche, perché non c’è un racconto esplicito. È una sorta di temperanza che mi impongo, nel seguirle e dar loro credito. Il racconto se si vuole è da cercare dietro, a seconda della sensibilità dell’osservatore. È questo un metodo che fa parte della mia natura, che è possibile collegare a esperienze metafisiche e alla Metafisica stessa, per via di certe sospensioni e certe ambiguità. Volendosi richiamare al concetto di “reperto”, anche in certe mie forme si produce quella incomunicabilità misteriosa e molto suggestiva che è propria dei reperti da tempi e situazioni remote; hanno lo stesso silenzio, lo stesso mistero.

Che ci sarà dietro? Che vorrà dire questa scanalatura? A cosa sarà servita? Forse una colonna? Forse un tempio? La comunicazione non è mai esplicita. Non che la cerchi questa ambiguità, appartiene alla natura del metodo, e dell’arte in generale, che sempre si nutre di tale enigmaticità. Io cerco di seguire il filo; come ho già detto, non credo che esista una cesura nel divenire delle cose”. Grazie Maestro!

Lucio Del Gobbo

24 agosto 2022

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