Come tutte le mostre d’arte di questo disgraziato periodo anche quella di Licini a Monte Vidon Corrado è stata azzoppata dalla pandemia che stiamo vivendo. Essa ha già avuto una proroga in gennaio e chissà che non potrà avere una ulteriore prosecuzione quando il cielo tornerà a essere sereno. Con la formula “Sperando di poter riaprire al pubblico appena le decisioni del governo lo concederanno” il Comune di Monte Vidon Corrado pare aprire a qualche speranza. Vedremo.
Ne saremmo felici perché la mostra è davvero notevole. Intanto, data la sua vicinanza e importanza, vogliamo tornarci su soffermandoci su una peculiarità che a nostro avviso la distingue da quelle precedenti del grande artista montevidonese, in riferimento al paesaggio e non solo. Tra le tante cose che sembrano doversi scoprire nelle opere di Licini presenti in rassegna (ma ciò vale in generale per tutta la sua produzione), ce n’è una a nostro parere essenziale e semplice, che le definisce tutte spiegandone al meglio la qualità, il valore, la sensibilità dell’autore: il Colore.
Forse non si è insistito abbastanza nel definirlo, il colore di Licini, e ritenerlo così fondamentale per la sua comprensione. Eppure le opere ne danno una dimostrazione chiara sia nell’astratto che nel figurativo. Licini colorista: potremmo già fermarci a questo per definire la sua genialità. Al di là dei suoi strani personaggi (Amalassunte, Olandesi volanti, Angeli ribelli, ecc), al di là delle cabale e dei misteriosi numeri e cifre che diventano occhi, bocche, espressioni, la cosa semplice da capire è appunto la rappresentatività del colore; è in esso che l’artista vive le sue solitarie avventure, la sua nitidezza poetica, i suoi voti di fedeltà, la sua squisitezza narrativa.
Nei suoi quadri entrano momenti di vita vissuta. Un colore, il suo, che non è mai fesso e fisso, ma registro mobile che si anima di istante in istante, divenendo materia e luce: melodico, ispirato, gonfio di umori, che respira, assommando in sé, armonia, suono, profumo. Un colore che metabolizza persino l’enigma e la profondità di quel sentimento che elegge il paesaggio come oggetto di amore, vivo incomparabilmente vario, troppo caro e prezioso per varietà e profili, dolce e pure aspro, generoso nell’offrirsi e nell’adombrarsi nell’animo del poeta.
Non è per caso che il nome di Licini venga spesso accostato a quello di Leopardi: i due massimi cantori dei nostri monti azzurri e delle nostre verdi colline. L’artista ebbe a scrivere in una lettera indirizzata all’amico Felice Catalini il 5 aprile del 1932, firmandosi assieme alla moglie Nanny Hellstrom: “Adesso guardiamo dalle finestre crescere la primavera e i cambiamenti rapidi del cielo e dei verdi e ci divertiamo come a teatro”. Non è questa una lettera d’amore dedicata appunto al paesaggio e alla tavolozza delle sue stagioni?
Lucio Del Gobbo
13 giugno 2021